Per un'ecologia linguistica davanti allo tsunami degli anglicismi
🌐 Visit Diciamoloinitaliano.wordpress.com
🌐 Diciamoloinitaliano.wordpress.com besuchen
✍️Write rieview ✍️Rezension schreiben 🏷️Get Badge! 🏷️Abzeichen holen! ⚙️Edit entry ⚙️Eintrag bearbeiten 📰News 📰Neuigkeiten
Tags: anglicismi ecologia linguistica
In risposta a <a href="https://diciamoloinitaliano.wordpress.com/2025/03/10/la-direttiva-musk-e-le-ingerenze-linguistiche-quello-che-i-giornali-non-raccontano/comment-page-1/#comment-25121">Anon</a>. Credevo ce ne fossero 2 o 3, ma forse sono solo basi logistiche di rifornimenti aerei e facilitazioni portuali. In ogni caso in Francia i contratti di lavoro e la comunicazione devono essere in francese, passando alla questione della lingua e del lavoro. Qui pare che i contratti siano in inglese e che nelle basi si parli solo l'inglese, e il personale statunitense non spiaccica una parola di italiano nemmeno dopo anni.
11.3.2025 21:23Commenti su La “direttiva Musk” e le ingerenze linguistiche, quello che i giornali non raccontano di zoppaz (antonio zoppetti)<!-- wp:quote --> <blockquote class="wp-block-quote"><!-- wp:paragraph --> <p><strong>perché queste lettere sono state inviate ai lavoratori italiani ma non a quelli delle basi francesi?</strong></p> <!-- /wp:paragraph --></blockquote> <!-- /wp:quote --><!-- wp:paragraph --> <p>Sarebbe difficile, non ci sono basi americane in Francia!</p> <!-- /wp:paragraph -->
11.3.2025 20:55Commenti su La “direttiva Musk” e le ingerenze linguistiche, quello che i giornali non raccontano di AnonDi Antonio Zoppetti In questi giorni infuria la polemica sulla cosiddetta “direttiva Musk” arrivata ai dipendenti italiani della base di Aviano (a Pordenone), un aeroporto militare utilizzato dall’aeronautica statunitense in cui lavora non soltanto il personale americano, ma anche quello italiano. Tra questi ci sono quasi 800 persone che includono commerciali, magazzinieri, operai, addetti alla ristorazione, alle pulizie e via dicendo. Il 3 marzo scorso è arrivata anche a questi lavoratori – o ai loro supervisori – la lettera del Department of Government Efficiency degli Stati Uniti che chiedeva i resoconti dell’attività lavorativa dell’ultima settimana con l’obbligo di una risposta entro 48 ore, in mancanza della quale si ventilavano provvedimenti dal sapore intimidatorio. Quello che i giornali non raccontano è che questa comunicazione è arrivata in inglese, e pare che nessuno si sia posto la questione dell’ingerenza linguistica, oltre che di quella sul piano del lavoro che ha visto l’immediata reazione dei sindacati. Un passo indietro Il Doge (Department of Government Efficiency), istituito attraverso un ordine esecutivo di Donald Trump a gennaio e diretto da Elon Musk, ha come compito la modernizzazione tecnologica e soprattutto il miglioramento dell’efficienza dei dipartimenti federali, che rischia di portare a enormi tagli e licenziamenti. Negli Usa sono sorte sin da subito forti polemiche tra chi ne ha messo in discussione la legittimità e la costituzionalità e chi ne difende lo statuto, perché si tratterebbe di un ente che si limita a emanare raccomandazioni e richieste di riduzioni delle spese che poi vengono ufficializzate dal Congresso. Comunque sia, nell’ottica di tagliare le spese e ridurre il personale, a fine febbraio Musk ha inviato ai dipendenti pubblici federali un rapporto in cinque punti sul proprio operato dell’ultima settimana precisando che, in mancanza di una risposta entro 48 ore, i posti di lavori sarebbero stati a rischio licenziamento. La novità è che la richiesta del rapporto nei giorni scorsi è stata diramata anche ai dipendenti della base di Aviano, ma pare anche a quella di Vicenza, non solo al personale statunitense, ma anche ai dipendenti italiani, che – bisogna sottolineare – hanno stipulato un contratto di lavoro di natura privata regolato della normativa di lavoro italiana, e non sono affatto tenuti a rispondere alle ingerenze del Doge, che a sua volta non ha alcun titolo per minacciare eventuali licenziamenti. Complessivamente ci sono circa 4.000 dipendenti italiani che lavorano nelle basi non solo di Aviano e Vicenza, ma anche a Sigonella, Livorno, Vicenza, Napoli… I sindacati si sono immediatamente mobilitati e hanno chiesto spiegazioni. Davanti alle reazioni, in un primo tempo l’ufficio Public Affairs del 31° Fighter Wing ha rassicurato tutti, parlando di un incidente e di un errore, e precisando che la comunicazione era rivolta solo ai dipendenti americani. Subito dopo è arrivata la smentita: “Anche i dipendenti italiani devono rispondere”. Dunque non era affatto un errore, ma una precisa volontà ben ponderata. E così, tra i lavoratori è scoppiato il panico. Gli stessi dirigenti si sono divisi; c’è chi ha chiesto di rispondere e chi ha suggerito di non farlo e attendere i chiarimenti. Ma intanto molti dipendenti, terrorizzati dall’idea di perdere il posto di lavoro hanno ottemperato alle richieste anche quando i loro supervisori hanno consigliato di aspettare. Una comunicazione in inglese: la lingua dei padroni Quello che nessuno sembra evidenziare è che la lettera ricevuta dagli italiani non è in italiano, ma in inglese, e l’oggetto che la maggior parte dei giornali riporta in italiano (“Cosa ha fatto nell’ultima settimana?”) nella realtà era: “What did you do last week?”. I giornalisti, il cui passatempo preferito sembra quello di introdurre anglicismi, davanti a una comunicazione in inglese sembrano cambiare strategia e tradurre tutto in italiano, facendo finta di niente e omettendo di raccontare che Musk si rivolge ai suoi sudditi lavorativi di cittadinanza italiana nella sua lingua, che da pochi giorni è diventata quella ufficiale degli Usa. Colpiscono le parole per esempio di un articolo pubblicato sul Secolo d’Italia, un giornale di destra che un tempo era l’organo del Msi e che oggi scrive: “Le e-mail sono arrivate, puntuali e perentorie, alla Base Usa di Aviano. Il mittente? Il Dipartimento per l’efficienza del governo degli Stati Uniti (…) Tra i destinatari, però, non ci sono solo i dipendenti governativi americani, ma anche il personale italiano che opera nell’avamposto militare: vigili del fuoco, addetti commerciali, lavoratori scolastici. La richiesta è chiara: dettagliare in cinque punti le attività svolte nell’ultima settimana.” La richiesta è chiara? No, non è affatto chiara visto che è in lingua inglese, anche se il giornalista si guarda bene dal raccontarlo. E anche la conclusione del pezzo lascia perplessi: “In ballo, oltre al rispetto dei contratti, c’è un principio di sovranità giuridica”. In realtà in ballo non c’è solo la sovranità giuridica, ma anche quella linguistica, benché i nostri “sovranisti” a metà non se ne rendano conto. Il ricorso all’inglese presuppone che i nostri lavoratori siano trattati come dei sudditi di una provincia o di una colonia anche dal punto linguistico, non solo da quello del lavoro. Tante domande senza risposte Nell’informazione nostrana tutto è fumoso e incomprensibile. Mentre si dice che le stesse comunicazioni sono arrivate anche alla base militare di Vicenza e che riguarderanno anche le altre basi in Italia, la prima domanda è: perché la comunicazione avviene in inglese? I contratti di lavoro dei dipendenti italiani sono in italiano o in inglese? Questi lavoratori sono dunque tenuti a conoscere questa lingua in modo ufficiale? Nel nostro Paese, che tutela più l’inglese che l’italiano, la questione dei contratti con le multinazionali è spinosa, anche se nessuno ne parla. Sempre più spesso viene fatto sottoscrivere un contratto direttamente in inglese, e questa prassi è legittimata dal far firmare contemporaneamente un documento in cui il lavoratore dichiara di comprenderlo, una clausola senza la quale il contratto potrebbe essere impugnato. Ma poiché l’inglese è diventato un requisito per l’assunzione, nessun dipendente potrebbe dichiarare il contrario. Dunque si stanno moltiplicando i contratti in inglese, insieme all’obbligo di conoscere questa lingua, nel silenzio istituzionale e della nostra classe dirigente anglomane. Ma anche se un lavoratore conosce l’inglese, rimane il punto che è un dipendente italiano e che forse avrebbe tutti i diritti, oltre che gli interessi, a stipulare un accordo nella propria lingua madre invece che nella lingua del padrone. Tra gli altri interrogativi che ci dovremmo porre c’è almeno: le risposte devono essere inviate in inglese o in italiano? E ancora, perché queste lettere sono state inviate ai lavoratori italiani ma non a quelli delle basi francesi o spagnole? Nulla di simile si trova sui giornali di questi Paesi. E i giornalisti italiani sembrano non porsi questi interrogativi e ritagliare – a destra e a sinistra – lo stesso articolo frutto del copia e incolla dei lanci di agenzia, senza approfondire troppo. Il tema, benché sottaciuto, sarebbe di rilevanza nazionale, non siamo ancora dipendenti degli Usa. Non siamo ancora tenuti a conoscere l’inglese. Questa zona grigia andrebbe tutelata e regolamentata dalla nostra politica in modo chiaro, anche se tutti fanno finta che non esista e puntano ormai a ufficializzare l’inglese: nella scuola, nella formazione universitaria, nei requisiti per i concorsi della pubblica amministrazione, nella presentazione dei progetti di ricerca (Prin e Fis) e anche nei contratti di lavoro.
10.3.2025 13:09La “direttiva Musk” e le ingerenze linguistiche, quello che i giornali non raccontanoIn risposta a <a href="https://diciamoloinitaliano.wordpress.com/2025/03/03/trump-ufficializza-linglese-negli-usa-e-rompe-con-leuropa-a-cui-il-globish-non-conviene-affatto/comment-page-1/#comment-25110">faumes</a>. O' sole nostro sta in front office a quanto pare.
7.3.2025 17:34Commenti su Trump ufficializza l’inglese negli Usa e rompe con l’Europa a cui il globish non conviene affatto di zoppaz (antonio zoppetti)<!-- wp:paragraph --> <p>Ciao Antonio,<br>pubblico il n. 6 della mia rubrica: <a href="https://tinyurl.com/yc22yz8p" rel="nofollow ugc">https://tinyurl.com/yc22yz8p</a></p> <!-- /wp:paragraph -->
7.3.2025 17:28Commenti su Trump ufficializza l’inglese negli Usa e rompe con l’Europa a cui il globish non conviene affatto di faumesIn risposta a <a href="https://diciamoloinitaliano.wordpress.com/2025/03/03/trump-ufficializza-linglese-negli-usa-e-rompe-con-leuropa-a-cui-il-globish-non-conviene-affatto/comment-page-1/#comment-25106">alfredon996</a>. <!-- wp:paragraph --> <p>Ciao,<br>iniziative in tal senso già ci sono. Ad es. c'è il circuito Europa Cinemas, di cui pure il cinema del mio paese in Umbria fa parte. Ho notato inoltre che hanno cominciato a offrire anche la lingua originale.<br>Rai e altre emittenti europee già hanno delle quote per i prodotti culturali europei e confermo (guardo molti film) che l'offerta di serie e film non in lingua inglese, soprattutto da parte della Rai, è già molto ricca. Sulla tv inglese, ad es., i prodotti non anglofoni (anche Montalbano, Schiavone ecc.) salvo eccezioni sono spesso relegati su canali minori o sui portali digitali. Comunque mi sembrano molto meno che in Italia.</p> <!-- /wp:paragraph -->
5.3.2025 09:17Commenti su Trump ufficializza l’inglese negli Usa e rompe con l’Europa a cui il globish non conviene affatto di faumesIn risposta a <a href="https://diciamoloinitaliano.wordpress.com/2025/03/03/trump-ufficializza-linglese-negli-usa-e-rompe-con-leuropa-a-cui-il-globish-non-conviene-affatto/comment-page-1/#comment-25106">alfredon996</a>. Sulle lingue artificiali sfondi una porta aperta; sul protezionismo culturale -- questione molto delicata -- credo che si dovrebbe operare con campagne mediatiche e impegni istituzionali etici (si pensi alla Rai) più che con leggi restrittive/proibizionistiche. Il senso è quello di garantire pari opportunità davanti alle leggi del mercato che impogono di fatto solo modelli americani. Quindi sono per promuovere più che per proibire. Ma anche questa appare fantasscienza.
5.3.2025 08:47Commenti su Trump ufficializza l’inglese negli Usa e rompe con l’Europa a cui il globish non conviene affatto di zoppaz (antonio zoppetti)<!-- wp:paragraph --> <p>Gli unici Paesi che possono guidare l'Europa sono Spagna e Francia che hanno adottato politiche antiglobaliste da decenni a partire dalla protezione della lingua nazionale. La Germania è troppo legata alla Finanza internazionale, guarda caso il cancelliere in pectore Merz proviene da Blackrock . </p> <!-- /wp:paragraph -->
5.3.2025 08:26Commenti su Trump ufficializza l’inglese negli Usa e rompe con l’Europa a cui il globish non conviene affatto di Daniele TarriconeIn risposta a <a href="https://diciamoloinitaliano.wordpress.com/2025/03/03/trump-ufficializza-linglese-negli-usa-e-rompe-con-leuropa-a-cui-il-globish-non-conviene-affatto/comment-page-1/#comment-25105">zoppaz (antonio zoppetti)</a>. <!-- wp:quote --> <blockquote class="wp-block-quote"><!-- wp:paragraph --> <p>La soluzione dell’inglese credo che alla fine prevarrà anche se non ci conviene. L’esperanto mi pare un’ottima soluzione etica e pratica ma credo sia politicamente poco praticabile, a meno di non introdurlo e insegnarlo per diffonderlo, ma non vedo forze che lo promuovano seriamente (l’interlingua basata sul latino mi pare ormai accantonata). Un modello plurilingue – un po’ alla svizzera – che includa le lingue principali potrebbe essere interessante: tedesco, francese, italiano e spagnolo rappresentano insieme circa il 60% delle lingue native della popolazione dell’UE.</p> <!-- /wp:paragraph --></blockquote> <!-- /wp:quote --><!-- wp:paragraph --> <p>Le lingue artificiali sono la soluzione ideale, etica e pragmatica. Purtroppo per adesso sono sono fantascienza.</p> <!-- /wp:paragraph --><!-- wp:paragraph --> <p>Una buona idea sarebbe un sistema di quote per promuovere la cultura europea, una legge per stabilire che il 30% dei film proiettati nei cinema siano di origine europea, anche in lingua originale. Così di sicuro aumenterebbe l'interesse riguardo al plurilinguismo.</p> <!-- /wp:paragraph -->
4.3.2025 22:18Commenti su Trump ufficializza l’inglese negli Usa e rompe con l’Europa a cui il globish non conviene affatto di alfredon996In risposta a <a href="https://diciamoloinitaliano.wordpress.com/2025/03/03/trump-ufficializza-linglese-negli-usa-e-rompe-con-leuropa-a-cui-il-globish-non-conviene-affatto/comment-page-1/#comment-25104">giovannipontoglioda11827e2c</a>. Caro Pontoglio, è verissimo che l'Europa non nasce solo dalle pressioni d'oltreoceano, ma la ricostruzione circolante che vede per esempio Altiero Spinelli come uno dei principali fondatori mi pare poco attendibile, anche perché il modello federalista immaginato da questo autore non mi pare molto in linea con l'attuale UE. Il manifesto di Ventotene aveva una visione politica e culturale, oltre che economica. Naturalmente siamo nel campo delle interpretazioni storiche, e si può essere di altro avviso. Di fatto sull'idea di Europa tutta interna e teorica si sono instaurate le concretissime pressioni statunitensi e i finanziamenti del Piano Marshall che dettavano precise condizioni (per esempio la liberalizzazione dei mercati). Uno statista come De Gasperi ha dovuto conciliare le proprie idee con le linee che arrivavano dagli Usa da tanti punti di vista, anche elettorali. Benché fosse abbastanza preoccupato per l'invadenza e l'interferenza politica americana, stabilì solidi contatti con la Casa Bianca e nel 1947, per esempio, dopo un viaggio negli Stati Uniti espulse i comunisti dal governo e si preparò per la lunga campagna elettorale delle prime vere elezioni dopo la Costituzione in cui l'alleanza con gli Usa fu fondamentale. In questo clima anche l'Urss entrò a gamba tesa appoggiando le sinistre – al punto che le attuali polemiche sulle ingerenze elettorali dell'era internettiana fanno un po' sorridere – ma tornando all'Europa è nata come unione economica e nel suo allargarsi di solito l'entrata dei nuovi Paesi era legata a una precedente adesione alla Nato, con qualche eccezione (Irlanda, Svezia) tra cui il dibattutissimo caso recente dell'Ucraina. Dunque mi pare un'Europa molto a uso e consumo degli americani, e infatti l'attuale cambio di politica dell'era Trump sembra puntare a sbarazzarsene proprio perché è diventata un ostacolo. Nel nuovo scenario che sembra delinearsi o si unisce per davvero e in modo slegato dagli Usa – anche riprendendo le riflessioni di Spinelli e altri padri fondatori – o rimarrà qualcosa di marginale che tenderà a svanire. In questa nuova prospettiva credo che il problema della lingua vada almeno posto sul tavolo e discusso, invece di dare per scontato di appoggiarsi all'inglese, che nessuna carta ha mai ufficializzato, a parte la prassi anglomane che è esplosa soprattutto con l'allargamento ai Paesi dell'est: più si allargava più l'inglese guadagnava terreno come lingua di lavoro. E così sulla carta rimangono anche il francese e il tedesco, mentre l'italiano è stato cancellato. Con l'uscita del Regno Unito i madrelingua inglesi costituiscono però meno del 2%, e dalle statistiche risulta che l'inglese sia compreso da una minoranza mal distribuita (altissima la conoscenza nei Paesi scandinavi e bassissima in altri come Spagna, Francia, Italia, Grecia, Romania...). Il problema di una lingua comune rimane e andrebbe affrontato politicamente. La soluzione dell'inglese credo che alla fine prevarrà anche se non ci conviene. L'esperanto mi pare un'ottima soluzione etica e pratica ma credo sia politicamente poco praticabile, a meno di non introdurlo e insegnarlo per diffonderlo, ma non vedo forze che lo promuovano seriamente (l'interlingua basata sul latino mi pare ormai accantonata). Un modello plurilingue – un po' alla svizzera – che includa le lingue principali potrebbe essere interessante: tedesco, francese, italiano e spagnolo rappresentano insieme circa il 60% delle lingue native della popolazione dell’UE. Se si aggiunge il polacco, come rappresentante delle lingue slave, questa cifra sale a circa il 70%. Certo, le minoranze linguistiche sarebbero comunque escluse, ma forse lavorare in altre lingue oltre all’inglese sarebbe anche nel loro interesse, compreso quello degli italiani qualora la nostra lingua non fosse ammessa di fronte ad altre più estese, per cui sarebbe per lo meno possibile scegliere, invece di sorbirci la dittatura dell'inglese che finisce per rimpinguare le casse dei Paesi anglofoni che non investono nell'insegnamento di altre lingue e che sono non solo fuori dall'Ue ma anche sempre meno alleati, se prevarrà la linea di Trump. Non ho soluzioni in tasca, ma credo appunto che la questione della lingua andrebbe posta sul tavolo e discussa in tutte le sue sfaccettature anche economiche (come è stato fatto per es. con il rapporto Grin), invece di continuare a considerare la soluzione unica dell'inglese. E l'idea dei due livelli – poche lingue di lavoro ufficiali e traduzione in tutte le altre lingue minoritarie per la divulgazione – è di sicuro interessante.
4.3.2025 15:25Commenti su Trump ufficializza l’inglese negli Usa e rompe con l’Europa a cui il globish non conviene affatto di zoppaz (antonio zoppetti)<!-- wp:paragraph --> <p> Sono di formazione un linguista e non uno storico, quindi le mie parole hanno un valore molto relativo, tuttavia, ciò chiaramente premesso, mi sembra essere solo una mezza verità l'idea che l'integrazione europea sia un prodotto della politica statunitense. Diciamo piuttosto che c'è stata a lungo una convergenza d'interessi in tal senso tra la due sponde dell'Atlantico. Ma non possiamo dimenticare il "manifesto" di Spinelli e Rossi, l'azione di statisti come De Gasperi, Schuman e Adenauer, considerati credo a ragione padri non solo putativi dell'unificazione dell'Europa.</p> <!-- /wp:paragraph --><!-- wp:paragraph --> <p> A proposito d'Unione Europea, debbo dire che mi mette alquanto a disagio l'espressione oggi corrente di (auspicati) "Stati Uniti d'Europa", perché non mi sembra che il processo europeo sia paragonabile a quello che ha portato alla nascita degli "United States of America", degli "Estados Unidos Mexicanos" o degli "Estados Unidos do Brasil": in questi ultimi tre esempi s'è trattato di Stati che, sorti dall'indipendenza di quelle che erano "proiezioni" d'oltremare di nazioni europee (con le quali conservano stretti legami linguistici e culturali), hanno scelto di darsi una struttura amministrativa decentrata, con confini interni tracciati spesso in modo arbitrario. Nel caso dell'Europa si tratta invece di metter assieme nazioni che hanno storie, culture e, per quanto qui c'interessa, lingue differenti, senza che l'unificazione comporti l'evanescenza delle differenze, come richiama il motto "unità nella diversità".</p> <!-- /wp:paragraph --><!-- wp:paragraph --> <p> Circa il nesso tra il nuovo fossato che - spero non definitivamente - s'è aperto tra le due sponde dell'Atlantico settentrionale e il ruolo della lingua inglese in Europa, credo che esso non finirà affatto col destabilizzare la dominanza dell'inglese nel nostro continente. L'alternativa (a prescindere dall'ipotesi d'una lingua franca artificiale come l'esperanto, o della rivitalizzazione d'una lingua classica, opportunamente modernizzata, come potrebbe essere il latino, ipotesi che personalmente troverei interessanti ma che hanno troppo pochi fautori - e polticamente ed economicamente irrilevanti - per avere qualche possibilità d'essere prese in considerazione) potrebbe essere quella d'un'Europa linguisticamente a due livelli: un primo livello costituito da una piccola cerchia di lingue maggior diffusione, parificate a tutti gli effetti nelle istituzioni comunitarie, e un secondo livello costituito dalle rimanenti lingue nazionali degli Stati membri, ormai evidentemente troppo numerose perché possano essere effettivamente parificate (a cui aggiungerei un terzo livello di lingue regionali/minoritarie, incluse quelle delle più numerose comunità migranti). A ciò però s'oppone che sarebbe molto difficile la scelta di quali lingue inserire nella prima cerchia: quali sarebbero i criteri? Quelle con maggior numero di parlanti di madrelingua (tedesco, francese, italiano)? O più studiate (qui ovviemente rientrerebbe in gioco l'inglese)? O quelle più diffuse nel resto del mondo (qui italiano e tedsco sarebbero fuori gioco)? O quelle di più ricca tradizione culturale? Mettersi d'accordo sarebbe certo difficile, e se - anche se ciò appare oggi solo come possibile solo in futuro molto lontano) - domani accedessero all'Unione anche grandi paesi oggi esterni (Russia, Turchia, Egitto?) un eventuale accordo verrebbe nuovamente messo in discussione. E così - come in molti Paesi africani dove non s'è ufficializzata nessuna lingua autioctona per non suscitare la gelosia delle popolazioni che ne parlano altre e l'inglese / francese / portoghese continua a dominare come prima dell'indipendenza, anzi più di prima - preferiamo non decidere e lasciar fare all'anglofonizzazione strisciante fin al giorno in cui l'inglese sarà divenuta l'unica opzione possibile.</p> <!-- /wp:paragraph --><!-- wp:paragraph --> <p></p> <!-- /wp:paragraph --><!-- wp:paragraph --> <p> </p> <!-- /wp:paragraph -->
4.3.2025 14:18Commenti su Trump ufficializza l’inglese negli Usa e rompe con l’Europa a cui il globish non conviene affatto di giovannipontoglioda11827e2cDi Antonio Zoppetti Sabato scorso Trump ha firmato un ordine esecutivo che, a 250 anni dalla dichiarazione di indipendenza, ufficializza l’inglese come lingua degli Stati Uniti. Anche se alcuni singoli Stati lo avevano già fatto, la questione non era mai stata regolamentata a livello federale. L’inglese è sempre stato la lingua di fatto della maggioranza degli statunitensi – tre quarti della popolazione parla e conosce solo quella – ma ci sono enormi sacche di cittadini che non la parlano affatto tra le mure domestiche, per esempio almeno un milione di cinesi, ma soprattutto un numero altissimo di ispanici. Nel 2004, il politico statunitense Samuel Huntington rilevava che su 340 milioni di cittadini più di 28 milioni parlavano lo spagnolo nelle loro case e di questi ben 13,8 milioni non padroneggiavano troppo l’inglese (Samuel Huntington, “El reto hispano a EEUU”, Foreign Policy, Edicion española, aprile-maggio 2004, pp. 20-35). Dopo aver analizzato la fortissima espansione delle comunità ispaniche degli ultimi decenni, l’autore aggiungeva che “per la prima volta nella storia degli Stati Uniti, sempre più cittadini, soprattutto neri, non riescono a trovare lavoro o ottenere i compensi sperati a causa del fatto che parlano solo inglese”. E concludeva che, se l’espansione spagnola continuerà con questi ritmi, nel 2050 rappresenterà un quarto della popolazione, e tutto ciò avrà serie implicazioni per la politica e il governo, visto l’incremento demografico e il continuo flusso dei migranti provenienti dall’America centrale e caraibica. Nel frattempo, secondo i nuovi dati 2023 del Census Bureau, le persone che parlano spagnolo in famiglia sono diventate circa 43 milioni, con una distribuzione non omogenea, visto che nel territorio statunitense di Porto Rico la percentuale degli ispanofoni è del 94%. La decisione di Trump si inserisce in questo contesto e punta a “promuovere l’unità del Paese” specificando che “è nell’interesse dell’America designare una – e una sola – lingua ufficiale” che “rende omaggio alla lunga tradizione dei cittadini americani multilingue che hanno imparato l’inglese e lo hanno trasmesso ai loro figli per le generazioni a venire”. La nota della Casa Bianca che accompagna il nuovo atto legislativo precisa che “nell’accogliere i nuovi americani, una politica volta a incoraggiare l’apprendimento e l’adozione della nostra lingua nazionale renderà gli Stati Uniti una casa condivisa e consentirà ai nuovi cittadini di realizzare il sogno americano“. Questo provvedimento cancella un atto legislativo del 2000 firmato da Bill Clinton che – proprio partendo dal presupposto che l’inglese non era la lingua ufficiale – prevedeva che le agenzie federali fossero obbligate a fornire servizi pubblici anche in lingue diverse per garantire l’accesso alle informazioni per “le persone con una conoscenza limitata dell’inglese”. Dunque, con l’entrata in vigore della nuova legge non saranno più tenute a farlo (anche se non significa che non possano continuare a farlo), e questo provvedimento si inserisce in una più ampia politica rivolta contro gli immigrati anche dal punto di vista linguistico. Chi non conosce l’inglese si arrangi. Anche in Italia l’ufficializzazione dell’italiano è stata sancita solo di recente, con una legge del 1999 (n. 482 del 15 dicembre, art.1 comma 1: “La lingua ufficiale della Repubblica è l’italiano”) che ha però tutt’altro spirito, perché è volta a riconoscere e tutelare soprattutto le minoranze linguistiche presenti sul territorio più che l’idioma nazionale. E infatti – a parte il fatto che le istituzioni stanno introducendo sempre più anglicismi in modo ufficiale – dagli anni Duemila stiamo assistendo a un’ufficializzazione dell’inglese anche sul piano interno, non solo con l’introduzione del suo obbligo nelle scuole (un tempo si poteva scegliere una lingua straniera anche diversa), ma anche con l’obbligo di presentare in inglese – e non in italiano – le domande per ottenere fondi di ricerca per i progetti di rilevanza nazionale (Prin) o scientifici (Fis). E intanto anche le Università pubbliche stanno sopprimendo sempre più corsi in italiano per erogarli solo in lingua inglese. Eppure, a noi non conviene affatto adottare l’inglese per realizzare il sogno americano – per riprendere la nota della Casa Bianca – soprattutto davanti al nuovo scenario mondiale che si sta delineando nell’era di Trump. La rottura con l’Europa, una creazione americana diventata scomoda Trump ha apertamente dichiarato che l’Europa sarebbe nata per “fottere” gli americani ma che con il suo arrivo tutto ciò sarebbe cambiato. La realtà è un’altra. Come ho ricostruito nel libro Lo tsunami degli anglicismi (GoWare 2023), l’Europa nasce soprattutto per le pressioni degli Stati Uniti nel solco del Piano Marshall, il colossale finanziamento per la ricostruzione dopo la Seconda guerra mondiale. Anche se sempre più spesso viene esaltato come un gesto “filantropico” da chi ha fatto dell’americanismo e del sogno americano la sua religione, i fondi erano esplicitamente legati alla costruzione di un’unione dei Paesi europei utile agli interessi economico-politici statunitensi, e i soldi erano vincolati non solo alla creazione di un nuovo enorme mercato per i prodotti statunitensi, ma erano anche vincolati a un’alleanza politica con la Casa Bianca in funzione anticomunista. E, a proposito dell’Italia, come ha scritto Stephen Gundle “non si faceva mistero che tale generosità sarebbe cessata nel caso in cui le elezioni fossero state vinte dalle sinistre” (I comunisti italiani tra Hollywood e Mosca, Giunti, Firenze 1995, p. 83). La nascita dell’Unione europea è dunque avvenuta in questa prospettiva, e un articolo del 2021 sull’Economist (The EU: Made in America) lo ammetteva lucidamente: “L’integrazione europea è un sottoprodotto della politica americana”. Dal punto di vista militare, questo disegno comportava allo stesso tempo l’adesione alla Nato, inizialmente sorta come una coalizione militare da contrapporre al blocco comunista del Patto di Varsavia, che però è stato sciolto nel 1991 dopo la dissoluzione dell’Urss. Mentre c’era qualcuno che avrebbe voluto sciogliere anche la Nato, che non aveva più senso con la fine della logica dei due blocchi, il Patto Atlantico si è invece trasformato in un sistema di difesa a guida statunitense che – ancora una volta – perseguiva soprattutto gli interessi americani. E infatti, nella sua espansione, non si è affatto esteso verso Paesi africani o sudamericani ma si è spinto guarda caso verso la Russia fino a lambire l’Ucraina, che ha segnato il punto di rottura che è forse la vera ragione della guerra. Chiarito che l’Europa è nata perché faceva comodo agli Usa, e che gli investimenti del Piano Marshall su tempi lunghi hanno fruttato agli Usa guadagni decuplicati sia sul piano economico sia su quello politico e sociale, la fortissima connessione America-Europa – che ha comportato soprattutto la nostra americanizzazione – pare che sia finita nel passaggio dall’amministrazione Biden a quella di Trump. Nell’articolo del 2021 sull’Economist questa rottura era stata ben preconizzata: “I casi di competizione tra Europa e Stati Uniti” si leggeva “sono ancora rari, ma lo stanno diventando sempre meno. Un giorno, in futuro, l’America potrebbe arrivare a rimpiangere ciò che ha creato.” Quel giorno pare sia arrivato. Uno dei più forti segnali di questo conflitto di interessi si è manifestato per esempio con una serie di restrizioni che l’Ue sta ponendo ai colossi americani di internet in nome della privacy. Le multinazionali statunitensi e la politica trumpiana mal digeriscono queste limitazioni alla loro espansione selvaggia e senza regole. In questo momento non è chiaro se il secondo mandato di Trump sia uno sprazzo ouna svolta epocale senza ritorno. Il XXII emendamento della Costituzione statunitense prevede che nessun presidente può aspirare a un terzo mandato, ma Trump ha già dichiarato che vorrebbe intervenire anche su questo aspetto. In alternativa, non mi stupirebbe se il prossimo candidato alla Casa Bianca fosse un personaggio come per esempio Elon Musk… Tutto lascia presagire che la rottura sia insanabile, ma chi vivrà vedrà. Sta di fatto che per il momento l’equilibrio mondiale è cambiato. E che dovremmo muoverci di conseguenza. La fine della Nato e dell’Onu? Trump non ha soltanto deciso di rompere i legami storici con l’Europa e di introdurre i dazi. Se fino all’altro giorno chi osava mettere in discussione la nostra convenienza ad aderire alla Nato veniva sepolto dalle critiche, oggi è lo stesso Trump che sta facendo saltare tutto. Vuole che i Paesi europei contribuiscano con il 5% del loro Pil (attualmente l’Italia spende ben meno del 2%) altrimenti non saranno difesi. Ma dietro queste dichiarazioni c’è la volontà di sciogliere la Nato e di fare in modo che l’Europa si doti del proprio sistema di difesa. Tra le creature americane un tempo funzionali agli interessi statunitensi, ma da cui oggi Trump vuole svincolarsi, non c’è solo l’Europa, ma ogni altro ente internazionale che possa limitare lo strapotere americano a partire dall’Onu. Se un tempo era un organo voluto dagli Usa e che faceva loro comodo fino a quando lo controllavano, oggi si sta trasformando in un ostacolo, visto che sanziona soprattutto le malefatte dei cosiddetti Paesi occidentali. La politica di Trump sembra dunque volta a costruire un nuovo ordine mondiale che rompe gli schemi delle alleanze dal dopoguerra sino alla guerra in Ucraina. E anche quest’ultimo fatto è significativo. Se fino a ieri chi sosteneva che fosse una guerra di procura tra Usa e Russia veniva ostracizzato, è proprio Trump che ci fa capire che è andata esattamente così, come sosteneva da sempre l’insultatissimo Alessandro Orsini, ma anche papa Francesco, quando dichiarava che il conflitto era dovuto all’”abbaiare della Nato alle porte della Russia”. E come sta andando a finire, infatti? Che l’attuale trattativa di pace – o di resa – sta avvenendo tra i veri protagonisti e cioè Trump e Putin con esclusione degli stessi ucraini e anche dell’Europa. Le parole di Trump sono state chiare: l’Ucraina si scordi di entrare nella Nato (la ragione principale della guerra); se vuole entrare in Europa chissenefrega, ma che ci pensino gli europei a difenderla dalla Russia. La guerra in Ucraina sembra destinata a finire con una spartizione del territorio da parte dei protagonisti che trovano finalmente il loro accordo sulla pelle degli ucraini: Putin si prende le regioni che gli fanno comodo, gli Usa si prendono i diritti di sfruttamento delle terre rare, e – come chiosava Crozza – all’Europa non resta che prendersi le macerie di un Paese distrutto. L’unico elemento positivo – rispetto alla politica di Biden – è che la nuova alleanza tra Usa e Russia sembra aver scongiurato una terza guerra mondiale che abbiamo sfiorato. Ma il “pacifismo” trumpiano ha dei risvolti inquietanti. La faccia triste – ma più vera – dell’America Qualche giorno fa, un giornalista anglomane come Federico Rampini, disperato davanti alla svolta americana, notava che sta avvenendo esattamente quello che chiedevano gli antiamericanisti degli anni Settanta che gridavano nei cortei “Yankee go home” e denunciavano la politica degli Stati Uniti che appoggiava e finanziava le dittature sudamericane per paura nascesse qualche nuova Cuba alle loro porte. Ma le cose sono un po’ diverse, perché criticare l’aggressiva politica statunitense non significa affatto essere “antiamericani”, e trasformare chi non è d’accordo in qualcuno che è “anti” nasce dalla visione ideologizzata di chi ha sempre fatto dell’americanismo la propria religione. Soprattutto, la svolta di Trump non rappresenta affatto la fine dell’imperialismo e del neocolonialismo mascherati, tutt’altro, rafforza lo stesso disegno con nuove modalità ancora più agghiaccianti. Il vero cambiamento sta nell’aver gettato la maschera per esplicitare lo stesso progetto politico senza più alibi. Non bisogna dimenticare che il Paese che si presenta agli del mondo come l’incarnazione più sublime della democrazia, è lo stesso Paese che negli anni Cinquanta ha dato vita alla caccia alle streghe del maccartismo, negli anni Settanta è stato protagonista della guerra del Vietnam, negli anni Duemila ha inventato prove false – le presunte e inesistenti armi di distruzione di massa – per invadere l’Iraq, ma la lista di simili nefandezze è infinita. Ogni volta, tuttavia, la forma veniva ipocritamente rispettata attraverso una serie di alibi e giustificazioni sbandierate per salvare la faccia e lo stato di diritto. Trump, in modo ben più sincero ma allo stesso tempo preoccupante, sta mostrando la faccia triste – ma più vera – dell’America, e dunque senza alcuna remora annuncia che il Golfo del Messico si chiamerà Golfo d’America (e GoogleMpas obbedisce e aggiunge la nuova nomenclatura anche in Italia), mentre vorrebbe annettere il Canada, impossessarsi della Groenlandia e del canale di Panama, oltre alla questione delle terre rare ucraine e la trasformazione di Gaza in un villaggio turistico per milionari. Far saltare l’Europa, la Nato e l’Onu non è affatto la rinuncia al controllo mondiale, è al contrario alzare l’asticella. Sta emergendo una plutocrazia capitalistico-tecnologica globale basata sul profitto più che sul diritto, dove l’Europa, da provincia dell’impero a stelle e strisce si è trasformata in un ostacolo e dunque è più conveniente stingere alleanze con Putin, per staccarlo dalla Cina, e offrire la cittadinanza americana in vendita a 5 milioni di dollari anche agli oligarchi russi (una boutade inapplicabile ma significativa), che in fin dei conti non sono poi così diversi dagli oligarchi statunitensi che fanno a gara per dimostrare la loro trumpianità. Davanti a tutto ciò vogliamo continuare a fare gli americanisti? All’Europa creata dagli Usa e oggi abbandonata non resta che prendere atto del nuovo ordine mondiale. O si unisce e diventa davvero autonoma – ma i segnali che si vedono vanno nella direzione opposta – o si sfalda. È arrivato il momento di mettere in discussione anche il globish Nel nuovo scenario mondiale che si sta delineando, gli Stati Uniti non sono più un nostro alleato. Dovremmo cominciare a prenderne atto non solo da un punto di vista politico, militare ed economico, e dovremmo finalmente porre sul tavolo anche la questione della lingua. Ha senso che l’Europa continui a puntare e a investire sull’inglese? Ci conviene ancora? (a dire il vero non ci conveniva neanche prima). Tra le risposte ai dazi americani che ci metteranno in ginocchio non c’è solo la possibilità dei contro-dazi europei né l’apertura ad altri mercati internazionali come quello della Cina (ma la nuova via della seta abbozzata qualche hanno fa è stata poi ridimensionata proprio per compiacere gli Usa). Nel pacchetto dovremmo mettere in discussione anche il ruolo dell’inglese come lingua internazionale, e visto che gli Usa non sono più alleati e che il Regno Unito è fuori dall’Europa non ha alcun senso continuare a investire sul globalese e farlo diventare la lingua dell’Europa, perché questo progetto ha dei risvolti economici incalcolabili per gli Usa. I cinesi – il vero nemico economico degli Usa – lo hanno capito, e siccome non sono deficienti hanno smesso di investire sull’inglese e puntano sulla propria lingua. La lingua rappresenta uno degli assi strategici dell’economia statunitense. E il fatto che Trump abbia ufficializzato l’inglese sul piano interno lo dimostra. Vogliamo anche noi istituzionalizzare l’inglese come lingua unica inseguendo il sogno americano o vogliamo fare i nostri interessi? Vogliamo continuare a essere americanisti e fare il gioco di Musk e Trump? Vogliamo continuare ad anglificare le università per favorire la fuga di cervelli che andranno a lavorare negli Usa dove creeranno ricchezza mentre le spese della loro formazione sono a nostro carico? Vogliamo continuare a considerare l’inglese la lingua superiore e ad anglicizzare gli idiomi locali favorendo la nascita di itanglese, franglese, spanglish e Denglisch? Chissà se prima o poi qualche intellettuale aprirà gli occhi e, prima che sia troppo tardi, capirà che la questione della lingua è un fattore politico di importanza fondamentale. Per il momento, nel silenzio e nel vuoto, le voci che si elevano sono ben poche. Tra queste c’è quella di Piero Bevilacqua, che nel suo ultimo libro (La guerra mondiale a pezzi e la disfatta dell’Unione europea, Castelvecchi, 2025) scrive: “Gli Stati Uniti sono un grande Paese, dotato di un ricco patrimonio culturale e scientifico, ma dovrebbe essere evidente da tempo che l’americanismo costituisce un gigantesco processo di colonizzazione culturale e politica”. Sul Fatto quotidiano (Giorgio Valentini, “Un nuovo linguaggio per liberare l’Europa dallo strapotere Usa”, 1/3/25) il giornalista ne riassume qualche posizione che voglio riprendere: «“Il linguaggio deve essere dunque interpretato come una leva non solo per ricostruire un’identità nazionale in via di dissoluzione, ma anche per ridare il nerbo necessario e uno strumento comunicativo a una nuova progettualità politica”. È proprio da qui che può partire un’emancipazione dell’Unione europea dall’America, sul piano politico, economico e militare, al di là della tradizionale alleanza atlantica. “Occorre riesaminare le culture che letteralmente ci dominano – avverte lo storico – per trovare nuove parole o recuperarne di antiche che definiscano il futuro possibile”. E conclude: “La lingua è infatti un veicolo di dominio e al tempo stesso di liberazione”».
3.3.2025 15:24Trump ufficializza l’inglese negli Usa e rompe con l’Europa a cui il globish non conviene affattoIn Italia, le prove tecniche di anglificazione dell’università risalgono all’anno accademico 2007-2008, quando il Politecnico di Torino ha avviato i primi corsi erogati non in italiano, ma in lingua inglese, il che era una novità che serviva per sondare il terreno e le reazioni. Poiché gli studenti andavano incentivati per fare in modo che abbandonassero la loro lingua madre, l’ateneo ha pensato bene di erogare i corsi in inglese in modo gratuito, al contrario dei corrispettivi in italiano. In questo modo si è introdotta la prima discriminazione che metteva in discussione un principio che raramente si sente invocare: il diritto allo studio nella propria lingua. Vuoi studiare nella tua lingua? Paga! Fase due. Il Politecnico di Milano – un’università pubblica e finanziata dallo Stato – a partire dall’anno accademico 2013-2014, ha alzato l’asticella e ha dato il via a un progetto pilota per rendere obbligatorio l’insegnamento in inglese e sopprimere quello in italiano. Nonostante le proteste, i ricorsi legali e i pronunciamenti della Corte istituzionale, questa imposizione (che si potrebbe anche considerare anglofascista) nell’arco di un solo decennio si estesa a una quantità di atenei impressionante. È una velocità che spaventa, anche se in Italia non trovo una mappatura del fenomeno su scala nazionale (tra l’altro molto in divenire perché aumentano di continuo). Teoricamente, la sentenza della Corte Costituzionale del 2017 (n. 42) ha ammesso la possibilità di erogare corsi anche in lingua inglese, ma riconoscendo la “primazia” della lingua italiana nella formazione, dunque si può insegnare in inglese “secondo ragionevolezza, proporzionalità e adeguatezza, così da garantire pur sempre una complessiva offerta formativa che sia rispettosa del primato della lingua italiana, così come del principio d’eguaglianza, del diritto all’istruzione e della libertà d’insegnamento.” Questo pronunciamento è stato salutato da molti come salomonico, perché permetteva di insegnare anche in inglese, pur sancendo che l’italiano non poteva essere messo in discussione. In realtà le cose sono andate in modo molto diverso, perché la proporzionalità non era definita, ma lasciata alla discrezione dei singoli atenei. Nel 2019, l’ultima sentenza sulla decisione del Politecnico di Milano (n. 7694, Consiglio di Stato, Sez. VI, 11/19) stabiliva che anche se “su un totale di 40 corsi di laurea magistrale 27 sono in inglese, 4 sono in italiano e 9 sono in italiano e in inglese” e anche se “su un totale di 1.452 insegnamenti, 1.046 sono in inglese, 400 in italiano e 6 sono duplicati in italiano e in inglese” questa ripartizione era considerata equa. Fase 3. Davanti a questo strano modo di interpretare la “primazia” della lingua italiana e il principio di ragionevolezza, gli atenei di tutto il Paese che guardavano al modello del Politecnico milanese hanno avuto la strada spianata per passare all’insegnamento in inglese invece che in italiano. Perché questa decisione? Perché nelle classifiche internazionali che assegnano i punteggi dell’università conta moltissimo la capacità di attrarre studenti dall’estero, e questo obiettivo si persegue erogando corsi direttamente in inglese. Le università-aziende se ne fregano dell’italiano e del diritto allo studio in italiano. Per ottemperare alle leggi basta che garantiscano qualche corso anche in italiano, magari secondario e sfigato. Purtroppo lo Stato italiano non interviene per regolamentare questi aspetti e per proteggere i diritti dei cittadini. Eppure questa prassi è una vera e propria dittatura dell’inglese, perché è imposta dall’alto e non tiene conto del gradimento degli studenti italiani, che tanto non hanno alternative: dove altro possono andare a studiare? L’insegnamento in inglese è dunque un’imposizione, che non riguarda solo i giovani ma tutto il Paese, visto che le tasse che paghiamo per l’istruzione finiscono per finanziare un sistema che punta all’abbandono dell’italiano. L’inglese diventa un obbligo e un requisito imposto agli italiani, non è una scelta. La fase 4? Il sistema Italia, sembra intenzionato a ufficializzare l’inglese e a condurci sulla via di un bilinguismo forzato. I primi segnali sono inquietanti. L’inglese è diventato obbligatorio nelle scuole (un tempo si poteva scegliere una seconda lingua); dalla scuola si è poi passati all’amministrazione: la riforma Madia ha cancellato il requisito di conoscere una seconda lingua per accedere ai concorsi pubblici sostituendola con “l’inglese”; intanto l’inglese è diventato la lingua obbligatoria per presentare i progetti di ricerca (Prin) e anche i fondi per la scienza (Fis), che devono essere presentati in inglese, altrimenti saranno considerati “irricevibili”, e in inglese si devono svolgere anche gli eventuali dibattiti in merito (questa è una cancellazione dell’italiano ufficializzata). La partita in gioco dei prossimi anni è invece l’anglificazione dell’università. Anche in questo caso, i corsi in inglese non derivano da una scelta degli studenti, si configurano come un obbligo, visto che spesso ci sono solo quelli. L’ultima protesta organizzata dagli Attivisti dell’italiano esattamente un anno fa – e appoggiata dall’Accademia della Crusca – ha riguardato l’università di Rimini che ha soppresso l’ennesimo corso in italiano per erogarlo solo in inglese, ma nonostante le rimostranze dei cittadini l’università va avanti per la sua strada perché lo Stato – e la nostra politica – glielo lascia fare. È in questo modo che si uccidono le lingue. Le conseguenze di queste strategie si sono già viste in Africa con l’apertura delle scuole coloniali che insegnavano in inglese, come ha denunciato il kenyota Ngugi wa Thiong’o in Decolonizzare la mente (Jaca Book, Milano 2015): se l’alta formazione è solo in lingua inglese va a finire che chi non sa l’inglese non può studiare, e le lingue locali finiscono per diventare dei dialetti e di scomparire, mentre si impone ovunque la lingua dei Paesi dominanti. L’Italia sembra decisa a perseguire la stessa visione coloniale. I nostri intellettuali collaborazionisti puntano a ufficializzare l’inglese a scapito dell’italiano, e a seguire il modello universitario dei Paesi scandinavi, proprio mentre negli stessi Paesi si sta facendo retromarcia. Nuovi dati dalla Finlandia I nuovi dati che arrivano dalla Finlandia mostrano che l’insegnamento in inglese ha avuto delle ricadute disastrose sulle competenze linguistiche interne di quel Paese. Lì le lingue ufficiali sono il finlandese e lo svedese, ma da tempo l’inglese è la lingua dominante dell’università, come lo si vuol far diventare anche da noi. Stando all’ultimo rapporto sulle politiche linguistiche dell’Istituto per le lingue della Finlandia (Kotus), l’insegnamento in inglese all’università è aumentato notevolmente negli ultimi anni, al punto che le tesi di dottorato in inglese sfiorano il 90%. Ma questo non dipende dalla volontà degli studenti, tutto il contrario: in più dell’80% dei casi preferirebbero studiare nella propria lingua, più precisamente il 38% in finlandese e il 74% in svedese. L’imposizione dell’inglese ai cittadini è dunque frutto di scelte politiche liberticide. E queste scelte sono devastanti non solo nella qualità dell’insegnamento (i risultati sono decisamente peggiori rispetto ai corsi tenuti nella lingua madre), ma anche nella regressione delle lingue native sul piano sociale. Il professor Michele Gazzola – docente di amministrazione e politiche pubbliche dell’Università dell’Ulster – mi ha segnalato un serissimo rapporto uscito nel gennaio 2025 che mostra come le competenze del finlandese e dello svedese diminuiscano proprio davanti al dominio dell’inglese nell’università. E di fronte a questi dati è sorto un dibattito acceso in cui l’anglificazione è stata finalmente messa in discussione. Il governo ha dovuto perciò intervenire davanti ai numerosi reclami, perché il predominio dell’inglese nelle università viola le leggi finlandesi che garantiscono il diritto all’istruzione nelle lingue ufficiali del paese. L’università si è quindi impegnata ad aumentare l’offerta in finlandese e in svedese persino negli atenei più anglomani come l’università di Aalto che nel 2023 ha annunciato l’adozione di nuove linee guida in cui ha dovuto rafforzare i corsi in finlandese e svedese. Da noi avviene tutto il contrario, e il partito degli anglomani si allarga, mentre lo Stato non sembra interessato a tutelare né la nostra lingua né i nostri diritti. Intanto sono usciti i nuovi risultati delle prove INVALSI che rivelano – guarda caso – un aumento dell’analfabetismo funzionale e un calo della conoscenza dell’italiano. C’è poco da stupirsi, visto che la centralità dell’italiano sta perdendo terreno – sapere l’inglese è considerato più importante – e visto che stiamo perseguendo una politica linguistica per diffondere l’inglese a scapito della lingua di Dante. Ma mentre noi ci suicidiamo culturalmente, c’è un Paese anglofono che punta invece a de-anglificarsi con successo. Nuovi dati dal Galles Riporto dei dati che mi ha girato Jacopo Parravicini, un docente di fisica sperimentale presso l’Università di Firenze che si batte per l’insegnamento in italiano. Riguardano il Galles, e la premessa storica è che nelle isole britanniche l’inglese è stato imposto sradicando le parlate locali celtiche diffuse in Scozia, Irlanda e Galles. In quest’ultimo Paese, però, la resistenza è stata maggiore, e negli ultimi anni si sta assistendo a una crescita del gallese: se nel XX secolo questa lingua era parlata dal 20% della popolazione, nel nuovo millennio si è registrata un forte incremento: attualmente è salita al 25%, mentre più di due terzi della popolazione considera favorevolmente la ripresa del gallese. E come si è ottenuto questo risultato? Attraverso una politica e pianificazione linguistica che tutela la lingua locale dalla minaccia dell’inglese. In un Paese anglofono, dunque, è in corso una politica di de-anglificazione che funziona. Dal 2000, l’insegnamento del gallese fino a 16 anni è diventato obbligatorio in tutte le scuole del Galles, e di recente è stata messa in atto una strategia che promuove il gallese come prima lingua delle scuole. Questa opzione è una scelta, non un obbligo, e circa il 20% degli studenti ha preferito studiare in gallese invece che in inglese! In Galles c’è la libertà linguistica invece della dittatura. E questa libertà è favorita dalla politica. Nel 2011 è stata varata una legge per il rilancio del gallese (Welsh Language Measure), e nel 2017 è stato proposto un piano strategico per raddoppiare i parlanti di questa lingua con l’obiettivo di portarli a un milione (attualmente sono poco più di mezzo milione su una popolazione di circa 3 milioni di abitanti): il “Cymraeg 2050 – A milion of Welsh speakers”. E questo vale anche per l’istruzione superiore, per fare in modo che “nel passaggio all’università non si perdano le competenze linguistiche in gallese”. E così sono stati ampliati i corsi di laurea e dottorato in gallese – invece che in inglese – in un piano di assunzione di docenti gallesi. Mentre da noi aumentano i corsi in inglese, l’Università del Galles Trinity Saint David (17.000 studenti) e la Bangor University (11.000 studenti) puntano ad avere due terzi dei docenti in grado di parlare il gallese e di tenere le lezioni – ma anche i ricevimenti degli studenti – in gallese. L’Università di Bangor ha anche emanato il “Welsh Language Policy and Action Plan“, cioè dei principi guida che puntano a “garantire che la lingua gallese rimanga al centro della vita e del lavoro dell’Università” e che gli studenti possano scegliere (parola che da noi è stata abrogata) di studiare in gallese, perché le due lingue devono essere trattate allo stesso modo e lo Stato interviene per garantire e aiutare chi preferisce studiare in gallese. Queste università non insegnano solo materie umanistiche, ma anche scientifiche e biomediche, e non sposano affatto l’idea che l’inglese sia la lingua internazionale della scienza. E quello che auspica Jacopo Parravicini è molto semplice: attuare le stesse politiche del Galles anche nel caso dell’italiano. Ma la nostra classe dirigente e politica, purtroppo, preferisce perseguire la via della dittatura.
24.2.2025 16:45La dittatura dell’inglese all’università: nuovi dati dalla Finlandia e dal GallesDi Antonio Zoppetti In questi giorni al Palazzo dei congressi dell’Eur, a Roma, è in corso L’Esposizione Nazionale italiana del Sistema Italia, patrocinato da enti come il Ministero della Cultura, la Regione Lazio e l’INPS che vogliono farsi promotori della valorizzazione storica del territorio. E come si chiama questo evento per promuovere il Sistema Italia? Con l’ennesimo gioco di parole basato sull’inglese, naturalmente: “Identitaly” (grazie a Daniele Imperi che me l’ha segnalato), perché la lingua italiana non fa parte del patrimonio linguistico che si vuole rilanciare e tutelare. L’anno scorso c’era stata un’iniziativa simile che invece si chiamava Identitalia, in italiano, ma siccome i nuovi strateghi della comunicazione dalla mente colonizzata non ce la fanno a usare l’italiano, si rendeva necessario un sottotitolo per sottolineare che all’inglese non si può rinunciare: IDENTITALIA: the Italian Iconic Brands. In questo caso l’obiettivo della mostra era di celebrare il “made in Italy” e “valorizzare il patrimonio economico, industriale e culturale rappresentato dai Marchi Storici” e del “saper fare italiano con uno sguardo al futuro”, con un’attenzione per le storie imprenditoriali di successo e per i designer che hanno cambiato il modo di comunicare l’immagine aziendale dei prodotti. Ma quando una società, per valorizzare ed esportare i propri punti di forza ricorre all’inglese invece della propria lingua (in un passaggio dal disegno industriale all’italian design, e dal prodotto italiano al made in Italy), significa che qualcosa si è spezzato e abbiamo un problema di “identity”, come si potrebbe dire per essere più moderni e soprattutto coerenti con la strategia di anglicizzare ogni cosa. Del resto “L’italian design day” (con l’inversione sintattica che ormai caratterizza sempre più espressioni) è una rassegna tematica annuale organizzata dal 2017 dal Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale della Farnesina in collaborazione e con il supporto del Ministero dei Beni, delle Attività Culturali e del Turismo. Quando a diffondere e ufficializzare questo nuovo stilema linguistico sono le istituzioni non resta che prendere atto che – checché ne dicano gli anglomani, i “non-è-propristi” e i negazionisti – l’itanglese non solo esiste, ma è anche un modello comunicativo preferito e divulgato da un nuovo Sistema Italia (prossimamente si potrà forse meglio dire Italian system) che rinuncia alla propria lingua per identificarsi con quella d’oltreoceano. Sempre la Farnesina, per esempio, aderisce e promuove un evento annuale che apre gratuitamente al pubblico centinaia di edifici di Roma notevoli per le loro caratteristiche, progetto che non si chiama certo “Case aperte” bensì con un più solenne Open House Roma, che fa “pendant” con mille altre espressioni del genere, dagli “Open day” delle scuole agli “Open” del tennis, dalle tecnologie informatiche “open source” a quelle “open data”. Tra i neologismi della Treccani – che per la metà sono ormai in inglese – si registrano anche: open content, open editing, open party, open plan, open publishing, open toe e open work. L’italiano è sempre più open al globish, per sintetizzare ciò che sta accadendo. Se ai tempi di Dante la lingua del sì si confrontava soprattutto con i modelli provenzali della lingua d’oc, oggi si confronta con la lingua d’ok, come si può notare sul sito del Ministero delle Imprese e del Made in Italy, che davanti all’informativa sui “cookie” propone di selezionare “OK, ho capito”, e nonostante lo sforzo di scrivere “posta elettronica certificata” non può fare a meno di ricorrere a “mail” o “chat”, perché ormai l’italiano non è più in grado di esprimere certi ambiti come quello informatico con il proprio lessico, e anche quando esiste si privilegiano soluzioni come “homepage” invece di pagina principale, e si scrive “Contact Center UIBM” come fosse normale. A proposito di Dante e di iniziative istituzionali, vale la pena di segnalare il progetto Cantica21 “per promuovere e valorizzare l’arte contemporanea italiana” che ancora una volta ha bisogno di essere affiancato da una “spiegazione” in inglese: Italian Contemporary Art Everywhere. Colpisce che Dante sia definito un “visionario”, espressione di solito riservata a imprenditori statunitensi come Steve Jobs e più recentemente Elon Musk, con un’accezione positiva sconosciuta nell’italiano storico (visionario fino a una ventina di anni fa era sinonimo di delirante più che di lungimirante). E così è stato ormai sdoganato anche l’uso di Crediti sul calco di Credits che si legge nel menù di navigazione in fondo al sito (dove si trova anche l’inevitabile “Privacy” ufficializzata dalle istituzioni), o di “Cookie”, ma anche la scelta di proporre agli italiano “About” invece di “Chi siamo”. Un altro progetto dedicato alla promozione dell’editoria italiana nel mondo si chiama invece NewItalianBook e le categorie dei libri sono ormai espresse in inglese: fiction, non-fiction, graphic novel, children… siamo insomma una colonia, un provincia del nuovo impero culturale a stelle e strisce. L’elenco delle iniziative istituzionale in inglese è infinito, e questa strategia accomuna tutti i governi di destra e sinistra del nuovo millennio. Lo si è visto con i costosissimi portali miseramente falliti di Franceschini (Pd) per promuovere l’italianità denominati di volta in volta Very Bello e ITsART sino a quello che piace alla (per adesso) ministra del turismo Daniela Santanché Open to meraviglia. Intanto le Poste italiane sostituiscono i pacchi ordinari e celeri con la logica del delivery, i rimborsi statali si effettuano attraverso il cashback, Alitalia è diventata Airwais gesttita dalla società Air Italy, il sistema di allarme pubblico che avverte i cittadini di potenziali rischi e catastrofi si chiama IT Alert e l’identità digitale degli italiani è regolata da IT Wallet… Per chi è rimasto all’Ottocento e al purismo, bisogna specificare chiaramente che tutto ciò non ha niente a che vedere con i “barbarismi” che di solito erano comunque italianizzati – non c’è alcun problema con le parole straniere – bensì con la colonizzazione di una sola lingua dominante: una vera e propria “dittatura dell’inglese” che schiaccia l’italiano, lo fa regredire e lo ibrida. Per chi non se ne fosse accorto, tutto ciò non ha nemmeno niente a che fare con gli anglicismi – cioè con le singole parole inglesi – ma con un sistema linguistico che sta saltando, con un cambio di paradigma linguistico-culturale e con un riversamento dell’inglese crudo – e solo quello – sempre più ampio e profondo che sta producendo una nuova diglossia: l’italiano non possiede lo stesso prestigio e non può competere nella “selezione lessicale” che vede l’inglese al vertice. Mentre certi linguisti si aggrappano in modo patetico alla teoria dell’obsolescenza degli anglicismi che – a loro dire – sarebbero perlopiù passeggeri e destinati a passare di moda e a scomparire, non si accorgono che per ogni anglicismo che esce ce ne sono dieci che entrano. E anche se la vita media delle parole inglesi fosse così effimera – ma non lo è affatto e anzi le espressioni in inglese si allargano, più che regredire – basta pensare che anche gli insetti come le zanzare vivono poco più di un mese, il che non significa che il problema delle zanzare non esista, come chiunque dotato di un minimo di raziocinio sa; e poco importa che la zanzara che ci ha pizzicato l’anno scorso non sia la stessa che ci pizzicherà il prossimo. Il numero delle espressioni inglesi, complessivamente, è in aumento, e chi sostiene il contrario è in malafede.
10.2.2025 13:12Il sistema linguistico italiano ha un problema di identityDi Antonio Zoppetti Mentre sui giornali lo tsunami degli anglicismi travolge quotidianamente la lingua italiana – soprattutto nei titoli, a caratteri cubitali e in bella vista – ogni tanto traspare qualche lamentela dei lettori, nascosta tra le lettere alla redazione. Nello spazio della Stampa “Lo specchio dei tempi”, per esempio, Carla Crivello il 30 gennaio mi ha segnalato la denuncia di un torinese: “Mi sono recato presso l’Asl di via Montanaro a Torino. Sono rimasto allibito! Vi è un cartello che indica un laboratorio con la scritta ‘Head and Neck Cancer Unit” Ho pensato che era bello sognare di e essere a Londra e mi sono dato un pizzicotto e invece ero a Torino. È mai possibile che i responsabili della Sanità Pubblica del Piemonte oltre a tutti i problemi che ben conosciamo non trovi niente di meglio che indicare un laboratorio così importante in lingua inglese?” (AB). Il 31 gennaio è invece stato pubblicato il commento di Marco Zomer (attivista dell’italiano): “Leggo che l’evento gratuito organizzato al Regio per seguire la finale del tennis era ‘soldout‘. Mi pare un ossimoro: non può essere ‘sold’ un evento gratuito! E se la smettessimo di usare anglicismi e scrivessimo ‘al completo’ o ‘tutto esaurito?'” (MZ). Sold out, che come la maggior parte degli anglicismi composti non ha una grafia ben codificata e si trova anche scritto con il trattino (sold-out) o tutto attaccato (soldout), è un potenziale prestito sterminatore che sta facendo il suo sporco lavoro: distruggere l’italiano sovrapponendosi come espressione più prestigiosa e moderna. Poco importa che non tutti capiscano cosa significhi, si abitueranno. E verrà il giorno che anche questa parola sarà forse dichiarata “italiana” da certi linguisti che così definiscono parole di altra frequenza come chat o computer (come si legge per esempio in certe consulenze linguistiche dell’Accademia della Crusca). In Rete circolano innumerevoli battute che giocano sulla trasparenza di questa parola: “Vorrei acquistare i biglietti”. Risposta: “Ciao, Sono Sold Out”. Replica: “Ciao Sold Out, quindi come posso fare?”. Intanto si registra l’uso in senso lato dell’espressione, che ha ormai perso il suo significato letterale legato al venduto (sold è participio passato del verbo sell) e nel suo sovrapporsi a tutto esaurito si impiega anche per ciò che non affatto in vendita, come il “sold out” dei musei milanesi causato dal fatto che l’ingresso era gratuito. Durante il covid, anche i centri vaccinali – chiamati HUB – erano sold out in una no-stop da record, per riportare la lingua dei giornalisti moderni (tuttavia no-stop significherebbe che è vietato fermarsi, al contraio di non-stop che significa senza pause). Purtroppo l’itanglese non è solo la lingua dei giornalisti, è il modello linguistico della nuova egemonia culturale, della nuova classe dirigente, o dell’élite, per usare un francesismo. Se la lingua dei Promessi Sposi manzoniani che si poneva come il nuovo modello dell’italiano si basava sul fiorentino dei ceti colti – e non certo del popolino inquinato da solecismi come diaccio per freddo – oggi il nuovo ceto alto sciacqua i propri cenci nell’East River del fiume Hudson (più che nel Tamigi), anche se i panni sporchi – si sa – sarebbe meglio lavarli in casa. E così, in un Paese dove si punta all’inglese come lingua dell’Università e all’abbandono dell’italiano come lingua della formazione, poi non stupisce che gli ospedali inaugurino le Head and Neck Cancer Unit, invece di parlare dell’oncologia, della testa o del collo. Il punto è che questa lingua viene imposta ai cittadini che la subiscono ob torto collo, se non si dice ormai ob torto neck. Tempo fa mi è capitato di frequentare i reparti ospedalieri specializzati nella cura degli ictus, ma il colpo apoplettico è roba di una volta, la cartellonistica dei reparti indica solo le Stroke Unit, perché in questo modo sono stati chiamati i centri di eccellenza. Nei documenti della Regione Lombardia si ufficializza la terminologia inglese, e si legge che il “Decreto della DG Sanità n. 10068 del 18/09/2008” è oggi sostituito dal “decreto DG Welfare n. 18447 del 17/12/2019”, mentre le nuove Stroke Unit si occupano anche della “corretta comunicazione ai caregivers” (con la “s” per formare il plurale), ma della comunicazione agli italiani che devono essere educati alla lingua dei padroni non interessa niente a nessuno, a parte i cittadini che scrivono le loro proteste ai giornali. Se l’obitorio di Pescara viene trasferito, la comunicazione ospedaliera rivolta alla popolazione non parla più di obitorio – un brutta parola, che evoca la morte – ma di Morgue e il giornalista è costretto a riportare tra parentesi l’avvertenza che sui cartelli c’è solo “morgue”. I delitti della via Morgue di Edgar Allan Poe, come in un racconto dell’orrore, si trasformano in delitti e crimini contro la lingua di Dante, gettata nel cesso per imporre l’inglese affermato dalle istituzioni. Il che è inaccettabile. Questa dittatura dell’inglese è la nuova lingua di classe. Un lingua che nell’era dell’inclusione esclude gli italiani, perché dietro il politicamente corretto c’è semplicemente il politicamente americano. Tra i linguisti impazziti, intanto, c’è chi ci spiega che la lingua arriva dal basso e la nuova prospettiva “scientifica” della linguistica moderna è descrittiva, non è più prescrittiva e normativa come una volta… poi però, davanti agli usi dal basso che escono dall’italiano storico, per esempio l’uso di “piuttosto che” con il nuovo significato di “oppure” invece di “anziché” non si fanno problemi a respingerlo e dichiararlo errore inammissibile, invece di descriverne l’uso sempre più inarginabile, come si legge sul sito della Crusca: “Non c’è bisogno di essere dei linguisti per rendersi conto dell’inammissibilità nell’uso dell’italiano d’un piuttosto che in sostituzione della disgiuntiva o. Intendiamoci: se quest’ennesima novità lessicale è da respingere fermamente non è soltanto perché essa è in contrasto con la tradizione grammaticale della nostra lingua e con la storia stessa del sintagma (a partire dalle premesse etimologiche); la ragione più seria sta nel fatto che un piuttosto che abusivamente equiparato a o può creare ambiguità sostanziali nella comunicazione, può insomma compromettere la funzione fondamentale del linguaggio.” Davanti all’ambiguità (e all’incomprensibilità) della comunicazione in inglese, tutto è invece più attutito (che significa soft per chi non è avvezzo alla lingua moderna). Certi linguisti impazziti, davanti all’anglicizzazione dell’italiano (che qualcuno ancora più impazzito continua a ridimensionare se non a negare) mediamente ci spiegano che sulla lingua non si può né deve intervenire, perché l’uso è sacro (anche se si tratta di un uso che arriva dall’alto e dagli anglomani, non certo dal popolo). Poi però decidono che è meglio scrivere “sé stesso” con l’accento e non con la sua omissione, e si mettono anche a scrivere così entrando a gamba tesa su un uso che – a torto o a ragione – si era affermato nel corso del Novecento come la norma editoriale in uso in tutta la letteratura e in tutti gli autori. È in questo modo, e in questo contesto, che prende piede l’italiano 2.0, dove per interferenza dell’inglese il punto sta al posto della vecchia virgola e quello che è definito ipocritamente “italiano” non è altro che una lingua ibrida il cui nome più appropriato è invece itanglese. Una lingua classista che si vuole legittimare a partire dalle istituzioni, invece che arginare. È questo il nuovo specchio dei tempi, fino a quando non ci faranno dire mirror.
3.2.2025 12:50La lingua di classe: l’italiano 2.0 a base ingleseDi Antonio Zoppetti Quando la lingua dominante in Europa era il francese, in un pionieristico Saggio intorno ai sinonimi della lingua italiana (1821), Giuseppe Grassi rifletteva sull’inappropriatezza della parola “pendente” che veniva allora impiegata al posto di “durante”, e ne denunciava l’abuso: “Bassa imitazione de’ modi francesi; (…) tanta e tale è la forza delle straniere invasioni, che le lingue istesse de’ popoli soggetti ne ricevono la vergognosa impronta, e le macchie della favella sono pur troppo indelebili segni di servitù. Sentirono gli Italiani suonar lunga pezza alle orecchie loro il pendant que, pendant la guerre, pendant les tems de’ Francesi, e non arrossirono d’imitare simili modi torcendo a questa inusitata significanza il vocabolo pendente, e dimentichi affatto del mentre che, durante la guerra, durante il tempo, ec. ec., adoperati da tutti i buoni autori in questo significato.” I puristi condannavano queste interferenze linguistiche “barbare” anche se si trattava di parole italianizzate, non certo importate in modo crudo. Oggi questo significato di “pendente” è scomparso, ma in altri casi le voci “infranciosate” hanno avuto fortuna, come è successo a una parola che oggi consideriamo “bella” come “emozione”, ma che alla fine dell’Ottocento era stata condannata ne I neologismi buoni e cattivi di Giusepe Rigutini (1886) come “uno di quei gallicismi, dai quali si guarderà sempre chiunque, distinguendo l’uso dall’abuso, vorrà parlare e scrivere italianamente”. Emozione era etichettato come un francesismo costruito sul calco di émotion, e Rigutini, pur non essendo un purista intransigente, respingeva questa voce perché esistevano già altre parole italiane più appropriate, come moto d’animo, commozione o agitazione. In altri casi ancora, simili “gallicismi” prendevano piede in italiano per la somiglianza con i “falsi amici”, cioè delle parole dal suono o dalla forma simile alle nostre, ma dal diverso significato. La voce francese bougie, per esempio, non significa bugia/menzogna, bensì candela (più esattamente indicava la cera delle candele), e così nell’imitare e italianizzare il francese è accaduto che bugia si sia impiegato in seguito anche da noi per indicare un portacandela, un’accezione che è rimasta in vita anche nei vocabolari moderni. Oggi, l’interferenza dell’inglese si fa sentire nella nostra lingua con modalità ben diverse rispetto a quelle del francese (ma anche dello spagnolo di epoca barocca), perché gli anglicismi penetrano direttamente nella forma e nella pronuncia della lingua di provenienza, e non più attraverso le italianizzazioni, il che ha delle conseguenze enormi nello sconquassare la struttura dell’italiano che tende a diventare una lingua ibrida in cui l’identità e la continuità storica si spezzano. Dalle marche di un dizionario specialistico come il Gradit di Tullio De mauro, risulta infatti che i vocaboli di origine francese sono stati italianizzati in oltre il 70% dei casi (per es. ghigliottina, sanculotti, mansarda…), mentre nel caso degli anglicismi gli adattamenti sono meno del 30%, e il 70% sono invece parole crude, il che ha un ben diverso impatto sulla nostra lingua. Gli anglicismi italianizzati costituiscono dunque una percentuale molto bassa, e tra questi si possono per esempio citare parole come femminicidio o resilienza, che hanno seguito la via dell’italianizzazione consapevole, come nel caso di mansarda e sanculotti. Altre volte simili adattamenti sono invece involontari, come nel caso di drone che – entrato per via scritta – abbiamo pronunciato istintivamente all’italiana, senza sapere che in inglese si pronuncia più o meno “dron”, e dunque al plurale si è declinato in “droni” ed è a tutti gli effetti diventata una parola italiana: il fatto che derivi dall’inglese che importanza ha, a parte le questioni etimologiche? Tra queste italianizzazioni involontarie – che sono tra le poche cose che stanno salvando l’italiano dall’anglicizzazione selvaggia – ci sono anche i cambiamenti di significato che derivano dai “falsi amici”. Meglio un falso amico in italiano che una parola in inglese crudo Gli esempi da manuale dell’interferenza dell’inglese attraverso i falsi amici sono per esempio “visionario”, che in italiano ha sempre indicato una visione distorta o allucinata della realtà, ma poiché in inglese visionary indica qualcuno di lungimirante, questa accezione è stata utilizzata anche da noi per esempio per esaltare un personaggio come Steve Jobs, e si è affermata e diffusa (il nuovo visionario per eccellenza in questi giorni è Elon Musk). Lo stesso si può dire di intrigante, che dal compiere intrighi è ormai impiegato al posto di coinvolgente/stuzzicante, mentre realizzare, dal costruire qualcosa, si è trasformato anche in comprendere, capire (ho realizzato che non mi dicesse la verità). O ancora, si può citare la parola basico, che nell’italiano storico indicherebbe il contrario di acido, ma sempre più spesso si usa con il senso di fondamentale, di base, come nel basic english. Come giudicare questo tipo di interferenza dell’inglese globale? I puristi, e non solo loro, in passato condannavano simili slittamenti di significato che producevano “barbarismi”, ma questo stesso atteggiamento non è scomparso, è in voga anche oggi proprio tra molti anglomani. Anche se le nuove accezioni di visionario, intrigante e realizzare si sono ormai diffuse, c’è chi continua a stigmatizzarle come “errori” invece di riconoscere che sono entrate nell’uso. E questo stesso atteggiamento riguarda moltissimi altri falsi amici che suscitano forti resistenze. Nel linguaggio lavorativo, per esempio, si sente sempre più spesso parlare di “ingaggiare i clienti” invece di coinvolgerli; di “finalizzare” invece di concludere… Questi esempi si possono leggere come un depauperamento semantico dell’italiano storico, ma allo stesso tempo sono fenomeni del tutto normali che abbiamo visto prendere piede per l’influsso storico del francese e dello spagnolo, e le lingue si evolvono anche con queste modalità, se si abbandona ogni approccio prescrittivo come dichiarano di fare certi linguisti, che nei fatti poi seguono tutt’altra filosofia e non si fanno alcuna remora a stigmatizzare certe espressioni come errate. In questi giorni l’inauguration di Trump è stata tradotta con inaugurazione, invece di insediamento, e tutti i giornali parlano della deportazione dei migranti nella nuova svolta politica americana: anche se “deportare” etimologicamente significa solo “portar via”, nell’italiano storico la deportazione è sempre stata associata a una pena detentiva, ma per interferenza del falso amico i mezzi di informazione stanno impiegando questa parola per indicare l’espulsione dal Paese degli irregolari, che non sempre è un semplice rimpatrio. E i giornalisti sguazzano compiaciuti nell’usare una parola dall’accezione negativa come deportazione, associata anche alle immagini disumane dei “deportati” in manette, perché in questo modo stigmatizzano meglio la politica del nuovo presidente piuttosto odiato. È attraverso esempi del genere che emerge tutta la schizofrenia di certi linguaioli anglomani che ho chiamato “anglopuristi”. Questi personaggi sono imbevuti della retorica dell’uso che fa la lingua, e attraverso questo principio sono pronti a giustificare la “necessità” o l’utilità di un numero sempre più ampio di anglicismi crudi diffusi sulla stampa, perché fondamentalmente sono poco interessati al fatto che un neologismo sia espresso con una parola italiana. Perciò gli anglomani non arrossiscono – come scriveva Giuseppe Grassi – davanti alle fake news, agli underdog, al green o al body shaming e ripetono compiaciuti queste parole dimentichi delle notizie false, degli sfavoriti, del verde e della derisione fisica. Ma allo stesso tempo, mentre danno dei “puristi” o dei nostalgici del fascismo a chi preferirebbe italianizzare, sono pronti a lanciare i loro anatemi contro chi usa deportazione anziché espulsione proprio come i più intransigenti puristi del passato. Dunque cambiano casacca e se ne fregano del fatto che questo uso – che piaccia o meno – si stia diffondendo. È una retorica dell’uso a fasi alterne, insomma, invocata per giustificare le parole inglesi, e nascosta sotto al tappeto in altri casi. E così se per l’interferenza dell’inglese sempre più persone usano la parola narrativa (che sarebbe un genere editoriale) al posto di narrazione vanno su tutte le furie. Come i puristi di altri tempi, i moderni anglopuristi vorrebbero cristallizzare l’italiano nei suoi significati storici, e quando una parola non c’è, invece di inventarla, tradurla o italianizzarla preferiscono ricorrere all’inglese. Siccome mi sono davvero stufato di sentirmi dare del “purista” da chi non capisce niente delle mie denunce sull’anglicizzazione dell’italiano, voglio ribadire in modo forte e chiaro: anche se non li userò mai e non mi piacciono affatto, non ho nulla contro i falsi amici, che sono attualmente la modalità più “sana” per rinnovare l’italiano senza trasformarlo in itanglese. E se nell’italiano del futuro narrativa, deportazione o inaugurazione assumeranno significati diversi da quelli odierni – come è avvenuto con l’interferenza del francese – avremo a che fare con un italiano modificato ma che resterà strutturalmente italiano, mentre se cominceremo a dire inauguration day o deportation come qualche giornalista televisivo sta facendo per darsi un tono, la nostra lingua si trasformerà in itanglese. Dunque è sempre meglio un falso amico di una parola in inglese crudo. E allora la mia provocazione è questa: è più purista chi promuove la creazione di neologismi, l’adattamento e la traduzione o chi sbava davanti ai falsi amici e ingessa l’italiano nei suoi significati storici che gli impediscono di evolversi? È più purista chi fa evolvere in senso moderno le nostre parole storiche – come autoscatto – o chi preferisce relegarle ai significati di una volta per sfoggiare selfie arrampicandosi sui vetri per cercare di dimostrare che non è proprio come il vecchio autoscatto di una volta?
28.1.2025 15:56I “falsi amici” cambiano l’italiano ma non lo uccidonoMentre c’è chi continua a negare l’esistenza o la consistenza del cosiddetto itanglese, la realtà è ben diversa. Voglio spendere qualche riflessione su un articolo (che mi ha segnalato Domenico Calabrese) apparso il 13 gennaio su una rivista che si chiama FQ Magazine (FQ sta per il Fatto quotidiano), archiviato sotto la categoria Trending News e intitolato “Basta coi drink, ubriacarsi ‘non è più di moda’: perché la GenZ beve sempre meno (non solo per il Dry January)”. Che le riviste si chiamino magazine e le notizie siano diventate news non è certo una novità, nella gerarchia che vede gli anglicismi prevalere come le parole chiave utilizzate per marcare le aree semantiche più generali e strategiche, basti pensare al settore enogastronomico che è una delle nostre eccellenze, ma che ormai si esprime attraverso definizioni come Food&Wine che risulta preferita tra gli addetti ai lavori e dunque anche sulla stampa. Accanto alle notizie di tendenza diventate ufficialmente Trending News, le altre categorie proposte dalla rivista sono: FQ Life, Televisione, Cinema, Musica, Viaggi, Libri e Arte, Moda e Stile, Beauty e Benessere. Su nove ce ne sono ben tre che ricorrono all’inglese, ma un terzo è una media molto bassa rispetto alle scelte di altre testate che puntano sullo Style invece dello stile o sui Books invece dei libri. Nel titolo colpisce la scelta di mettere tra virgolette l’espressione “non è più di moda”. Perché? È forse una citazione delle parole di qualche intervistato? No. Forse sono state usate perché è l’italiano a non essere più di moda, e viene dunque segnalato come fosse un’espressione impropria, e infatti subito dopo, nel sommario, appare cool, che invece non è affatto tra virgolette. Si tratta di 46 parole (togliendo dai conteggi i nomi propri come Rihanna e Bella Hadid) di cui 9 sono inglese (Trending News, drink, GenZ, Dry January, star, cool, e di nuovo drink) il che rappresenta una percentuale di circa il 20%. Naturalmente le percentuali di anglicismi si abbassano notevolmente all’interno del pezzo, e su meno di 900 parole (tolti i nomi propri) gli anglicismi sono più di 40, cioè una percentuale intorno al 5% (che non è affatto bassa): Per la cronaca, tra le altre parole straniere si segnalano solo due francesismi (routine e sommelier), che rappresentano una percentuale dello 0,2, che è qualcosa di irrilevante, normale e non implica alcun crollo della nostra lingua sempre più schiacciata dal solo inglese. Il che vale anche per parole inglesi come film o bar, entrate ormai a far parte del nostro vocabolario fondamentale, ma ancora una volta non è questo il problema, il problema è il numero e la frequenza delle altre. Colpisce per esempio la stereotipia con cui si ripetono parole come star o drink, senza alternative, che mostra come la penetrazione dell’inglese faccia regredire l’italiano, e più che aggiungersi e arricchire il nostro vocabolario lo impoverisce. Colpisce anche l’ostentazione degli anglicismi in contesti dove sarebbero inutili: mentre qualcuno ci spiega che le parole inglesi sono più corte e maneggevoli, e dunque per questo compaiono soprattutto nei titoli dove gli spazi contano, basta notare la formula del sommario che riferisce delle star che “si lanciano nel mercato dei drink analcolici”, dove il rimarcare drink non aggiunge niente, è inutile e sarebbe bastato analcolici. Venendo ai contenuti, il cosiddetto Dry January, che in italiano sarebbe semplicemente un gennaio sobrio, a secco o analcolico, è una campagna nata nel 2013 nel Regno Unito che ha poi fatto presa anche negli Stati Uniti e si è internazionalizzata in un movimento ostile all’alcol di stampo un po’ puritano. Non è un caso che gli Usa un tempo abbiano cercato di proibirlo e che ancora oggi ne è vietato il consumo per strada, per cui nelle scene di certi film si vedono gli alcolizzati bere da bottiglie coperte da sacchetti di carta che occultano ciò che tracannano. In Francia Macron si è opposto all’istituzionalizzazione di questa campagna, e anche da noi c’è una ben diversa cultura in proposito – almeno per ora – invece di confondere in modo talebano l’uso e l’abuso. Ma, in una società sempre più coloniale, quello che arriva d’oltreoceano si adotta, mica si adatta, a partire dalle categorie nate negli Usa come GenZ o Millennial che si applicano anche alla nostra realtà provinciale, e in questo clima non stupisce che un giornalista poi parli di detox invece che disintossicazione e di hangover invece di postumi della sbronza, che un tempo Manzoni o Francesco Redi chiamavano invece spranghetta. In questo sfaldamento dell’italiano gli analcolici diventano mocktail, e i giornali parlano del boom dei sober bar – cioè dei locali analcolici – che sono esaltati come l’ultimo trend alcohol-free (anglicizziamo anche alcol che era un’italianizzazione) del settore beverage che arriva dall’America. Se poi articoli del genere siano scritti in italiano o in itanglese è un giudizio che lascio all’intelligenza dei lettori. La schiera dei negazionisti che ci spiega come l’itanglese sia tutta un’illusione ottica blatera le stesse cose sempre meno sostenibili e sempre più imbarazzanti. Tra gli argomenti preferiti c’è la strana idea che tanto gli italiani mica parlano così… che non solo non è corroborata da alcun dato, ma soprattutto nella sua miopia non si rende conto del fatto che tutti i centri di irradiazione della lingua, compresi quelli istituzionali, stanno diffondendo l’itanglese: i mezzi di informazioni scritti e sonori, la comunicazione delle poste o delle ferrovie italiane, il panorama linguistico cittadino, i linguaggi di settore, quelli della formazione… e alla fine i cittadini come finiranno per parlare? Un altro argomento altrettanto indifendibile è la teoria dell’obsolescenza: secondo certi linguaioli una simile quantità di anglicismi sarebbe passeggera, e passata la moda svanirebbero. Ancora una volta non ci sono dati e statistiche a corroborare questa tesi, e se è vero che moltissime parole inglesi sono usa e getta e hanno vita breve (ma questo vale per tutti i neologismi), quello che i negazionisti fanno finta di non vedere è che gli anglicismi che regrediscono, passano di moda e scompaiono non lasciano certo il posto al ritorno all’italiano, al contrario sono rimpiazzati da nuove espressioni in inglese in uno stillicidio dove per ogni anglicismo che esce ne entrano dieci nuovi, con il risultato che le parole inglesi – stabili o evanescenti a questo punto poco importa – complessivamente non fanno che aumentare, e non diminuiscono di certo. A proposito di campagne etiche e sociali, davanti al radicarsi dell’itanglese, del franglais, del Denglisch, dello spanglish – e di tutte le ibridazioni dell’inglese che interferiscono persino con le lingue con altri alfabeti – varrebbe la pena di promuovere un mese di disintossicazione dagli anglicismi. Purtroppo in italiano non sarebbe più possibile, e per attuare una simile campagna non ci resterebbe che stare zitti in sempre più settori, dall’informatica al lavoro, dove si registra ormai un collasso di ambito: l’italiano non è più in grado di esprimere le cose con il proprio lessico.
20.1.2025 13:36Ubriacarsi d’ingleseDi Antonio Zoppetti Alla proclamazione dell'unità d'Italia, nel 1861, stando ai dati dei censimenti gli analfabeti rappresentavano il 78% della popolazione ed erano distribuiti in modo poco uniforme: fuori dai centri urbani, in alcune zone rurali del mezzogiorno toccavano il 90% della popolazione, e sfioravano il 100% nel caso delle donne. Queste masse si esprimevano quasi solo nel proprio dialetto. L'italiano era una lingua letteraria che si utilizzava da secoli nella scrittura, ma persino i ceti colti erano dialettofoni e non lo utilizzavano come lingua naturale delle conversazioni. Come era già avvenuto ben prima nelle grandi monarchie dell'Europa, anche nel nostro Paese l'unità politica ha portato all'unificazione linguistica. Il linguaggio dell'amministrazione, delle leggi e soprattutto i programmi di scolarizzazione, inizialmente piuttosto scalcinati, in breve hanno cominciato a dare i primi frutti: nel 1901 la percentuale degli analfabeti era calata dal 78% al 56%, per scendere al 35,8% nel 1921 e al 20,9% nel 1931. Il che significa che ogni nuova generazione compiva un grande salto rispetto alla precedente nell'imparare a leggere e a scrivere, ma anche nell'italianizzarsi. Gli anni Trenta Mentre la scolarizzazione si diffondeva generazione dopo generazione, l'avvento del sonoro ha contribuito ad affermare la lingua unitaria con un'intensità di ordini di grandezza superiori rispetto alla letteratura o alla pubblicistica che si propagavano per via scritta. Radio, cinema e poi televisione hanno avuto un effetto “pedagogico” enorme nel fare la lingua, difondendo la sua comprensione in modo in un primo tempo passivo ma poi sempre più attivo. Ma ancora agli inizi degli anni Trenta del Novecento questo modello di italiano apparteneva solo alle cerchie ristrette: “Tra la classe colta e il popolo c’è una grande distanza” scriveva Gramsci dalla cella del carcere dove il regime l'aveva rinchiuso. “La lingua del popolo è ancora il dialetto, col sussidio di un gergo italianizzante che è in gran parte il dialetto tradotto meccanicamente.” Gramsci aveva perfettamente compreso che la lingua non arriva dal basso – questo era “uno sproposito madornale” – perché una lingua comune prende forma grazie ai “focolai di irradiazione” che portano all'unificazione linguistica in un territorio, e cioè la scuola, i giornali, gli scrittori, il teatro, il cinema, la radio, le riunioni pubbliche civili, politiche o religiose... Una lingua unitaria prende forma in questi ambienti per poi irradiarsi nel popolo solo perché esiste un ceto dirigente che la impiega facendola diventare un modello riconosciuto e seguito. Dunque, ogni volta che riaffiora la questione della lingua è perché è in atto una riorganizzazione dell'egemonia culturale, dove emerge un ricambio della classe dirigente che si porta con sé anche un modello linguistico da far prevalere: ogni “grammatica normativa scritta è quindi sempre una 'scelta', un indirizzo culturale, e cioè sempre un atto di politica culturale-nazionale.” Gli anni Sessanta Trent'anni dopo – dunque nell'arco di una sola generazione (teniamolo a mente) – la situazione era completamente cambiata. Se negli anni Trenta Gramsci lamentava la mancanza di una lingua unitaria e l'enorme frattura tra la lingua del popolo legata al dialetto e quella aulica degli intellettuali, in un articolo su Rinascita del 1964 Pasolini – “con qualche titubanza, e non senza emozione” – riconosceva finalmente l'avvento dell'italiano come lingua nazionale di tutti. Il fenomeno era recente, si era manifestato con “la completa industrializzazione dell’Italia del Nord” che aveva dato vita a una nuova classe dirigente “realmente egemonica, e come tale realmente unificatrice della nostra società” anche dal punto di vista linguistico. Dopo secoli e secoli di controversie letterarie su una questione della lingua che apparteneva solo ai gruppi ristretti dei ceti colti e dei letterati, negli anni Sessanta si era realizzata una convergenza di tutte le parti sociali e geografiche che tendeva a uno stesso idioma non solo nella scrittura, ma anche nel parlare. E se tutti, da Palermo a Milano, parlavano di “frigorifero” era perché il nuovo italiano esprimeva il linguaggio della nuova classe egemone figlia dell'industrializzazione. Questa “borghesia capitalista” esercitava da noi la stessa influenza unificatrice che in passato le monarchie aristocratiche avevano portato alla formazione delle grandi lingue europee. L'avvento del nuovo italiano unitario si configurava però in modo diverso dal canone letterario toscaneggiante del passato, accoglieva gli influssi soprattutto del modo di parlare del nord, che era diventato il nuovo principale centro di irradiazione della lingua. I nuovi “centri creatori, elaboratori e unificatori del linguaggio” non erano più gli scrittori né le università, ma le aziende, in un mondo dove al centro della nuova lingua c'erano i prodotti di consumo e tecnologici. Il centro più vivo e innovativo dell’italiano contemporaneo si era spostato nelle zone industriali del settentrione, dove si era formata una nuova lingua tecnologica, industriale e capitalista, invece che umanista. Erano ormai gli imprenditori, gli scienziati e i giornalisti (nella loro accezione anche televisiva) coloro che avevano sempre più il potere di decidere della sorte della nostra lingua: “È il Nord industriale che possiede quel patrimonio linguistico che tende a sostituire i dialetti, ossia quei linguaggi tecnici che abbiamo visto omologare e strumentalizzare l’italiano come nuovo spirito unitario e nazionale.” In quegli anni sono spuntate le prime generazioni italofone di nascita anche fuori dalle regioni centrali, dove da sempre la lingua naturale delle conversazioni era molto vicina alla lingua della scrittura. Questo emergere di un italiano finalmente unitario ha finito per far decadere ancor di più l'uso del dialetto, che in molte aree del Paese è in via di estinzione, anche se in altre resiste come lingua domestica accanto a quella nazionale. Ma nel frattempo i nuovi centri di irradiazione della lingua si sono spostati fuori dall'Italia, e mentre la nostra società si è americanizzata sempre di più dal punto di vista politico, economico, sociale e culturale, è iniziata la nostra anglicizzazione anche linguistica. Gli anni Novanta Nell'arco di una sola generazione, nell'epoca della globalizzazione e dell'avvento di internet, l'italiano ha cessato di confrontarsi con i dialetti, ormai decaduti a codici marginali, per misurarsi con l'espansione del l'inglese planetario, il globalese o globish. I nuovi modelli linguistici anglicizzati arrivavano nella lingua di tutti non più solo attraverso il cinema o la musica come fino agli anni Sessanta, ma anche attraverso la televisione che negli anni Ottanta è diventata una vetrina soprattutto dei prodotti d'oltreoceano che esportano la propria lingua, la propria visione e la propria cultura. L'espansione delle multinazionali e dell'angloamericano globalizzato si è imposto come lingua prevalente nella scienza, nel lavoro e in sempre più settori, inclusa l'Ue che lo diffonde nonostante non esista alcuna carta che ne sancisca l'ufficialità. E il ruolo dominante di questa lingua ha cominciato a riverbarsi con intensità mai vista nei linguaggi specialistici, dove gli anglicismi hanno colonizzato la terminologia dell'informatica, della tecnologia o dell'economia al punto che le parole italiane per esprimere questi domini non ci sono più. Gli anni Venti del Duemila Oggi l'inglese è compreso e parlato da meno del 20% dell'umanità, da una minoranza degli europei e anche da una minoranza degli italiani. Non è dunque la lingua delle masse, ma – come sempre nella storia – quella delle nuove élite. E nel disegno politico delle nuove classi dirigenti c'è proprio l'idea di formare in tutta Europa le nuove generazioni bilingui a base inglese, per cui si è introdotto l'inglese nelle scuole a partire dalle elementari per renderlo un requisito culturale obbligatorio e non una scelta culturale. E sempre più atenei puntano ad abbandonare l'insegnamento in italiano per farlo direttamente in inglese. Ancora una volta, l'imposizione della lingua avviene dall'alto seguendo precisi modelli politici, non certo in modo “democratico”. Sembra quasi che di fronte all'unità linguistica che si è realizzata con tanta fatica solo dopo un secolo dalla proclamazione dell'Italia, la nuova classe dirigente punti sull'inglese proprio per elevarsi rispetto alle masse, inseguendo e ripristinando l'antica e storica diglossia italiana: se tra il Trecento e il Cinquecento il volgare toscaneggiante si è imposto sugli altri volgari che sono regrediti alla status di dialetti – lingue di rango inferiore, senza la loro università e il loro esercito – prima di allora era il latino a essere la lingua superiore della cultura, contro quella del popolino. Nella nuova diglossia che vede l'inglese come l'idioma superiore, l'italiano unitario regredisce e si avvia verso una strada che rischia di trasformare le lingue nazionali nei dialetti di un'Europa e di un “occidente” che si fa coincidere con l'anglosfera. L'inglese è la nuova lingua dei padroni, e la nostra intellighenzia lo ha preso come modello. Gli anglicismi come effetto collaterale del globalese L'angloamericano viene oggi vissuto dalle nuove classi dirigenti come lingua “internazionale”, anche se non è affatto l'esperanto – una lingua artificiale pensata proprio per essere lingua della comunicazione internazionale – è la lingua naturale dei popoli dominanti che la esportano a tutti gli altri. In un articolo di qualche settimana fa, il giornalista Rampini piangeva disperato davanti alla decisione della Cina di rompere con l'inglese. E invece di comprendere che ai cinesi – che sono numericamente ben di più degli anglofoni – non conviene affatto investire sull'inglese, si strappava i capelli perché in questo modo si verrebbe a spezzare la lingua comune internazionale in via di espansione, a suo dire, come se l'unica soluzione per risolvere i problemi della comunicazione tra i popoli sia quella di americanizzarsi. La nuova classe dirigente italiana, insomma, è l'espressione di una mentalità figlia di un imperialismo americano che ha ormai interiorizzato e dà per scontato in modo acritico. E anche se la denuncia di questo imperialismo non è più di moda – dopo l'epoca della guerra fredda e la logica dei due blocchi – il fenomeno non è scomparso, si è al contrario accentuato nel silenzio della nostra classe politica. E in questi giorni sta emergendo nei recenti e pericolosi vaniloqui di Trump che vorrebbe annettere il Canada, la Groenlandia e il canale di Panama in una cancellazione del Golfo del Messico che dovrebbe diventare il Golfo d'America. Se la lingua di questo impero diventa quella internazionale inseguita dai nuovi ceti dirigenti, dunque lingua alta, inevitabilmente l'italiano cesserà di essere una lingua di cultura, e allo stesso tempo sempre più anglicismi si diffonderanno nelle lingue locali come gli effetti collaterali di questo fenomeno. Nell'attuale riorganizzazione dell'egemonia culturale e nel nuovo ricambio della classe dirigente è perciò l'inglese a costituire il nuovo modello linguistico che fa regredire l'italiano. Perché un titolo di giornale parla di “bird stike” per indicare l'impatto degli uccelli che causa incidenti aerei? Perché la lingua dell'aviazione è l'inglese, e il giornalista – esponente della nuova oligarchia culturale – si compiace nel riprendere il tecnicismo in inglese invece di usare l'italiano, perché gli pare più solenne e moderno e dunque lo dà in pasto al pubblico e lo impone, per educare tutti alla newlingua, che è quella che ha in mente lui e quelli come lui, non certo gli italiani intesi come le masse. E così escono pezzi che parlano del burnout natalizio delle mamme, in un'anglicizzazione compulsiva in parte derivata dall'espansione delle multinazionali che si riverbera in articoli che parlano per esempio degli Amazon echo con speaker wireless e display smart, in un abbandono dell'italiano per diffondere la terminologia in inglese. E sul fronte interno le amministrazioni che regolano gli affitti brevi si occupano di keybox e di check-in... Sempre più spesso questo inglese viene diffuso dal linguaggio istituzionale, che un tempo – come i mezzi di informazione – ha invece spinto a unificare la nostra lingua. E più i generale tutti i nuovi centri di irradiazione della lingua diffondono ormai il modello dell'itanglese, non solo quelli storici individuati da Gramsci, ma anche quelli nuovi che includono le pubblicità, la lingua del web o quella dei cosiddetti “influencer”. Rispetto all'epoca di Pasolini la lingua tecnologica non arriva più dal nord, ma direttamente dall'anglosfera senza più traduzione. La questione, dunque, più che linguistica è politica e culturale, oltre che sociale. E dovremmo chiederci quale sarà l'italiano della prossima generazione, vista la velocità dell'espansione del fenomeno. L'italiano che va per questa strada è destinato a sfaldarsi, se non si cambia rotta, perché non segue più l'ortografia e la pronuncia che hanno caratterizzato l'italiano storico per secoli, ma si sta trasformando in una lingua ibrida che si può ormai definire itanglese. Siamo di fronte a un cambio di paradigma e a una discontinuità che fa dell'itanglese un nuovo modello linguistico di prestigio. Ma questo modello appare ormai come nuova lingua invece che un'evoluzione dell'italiano storico per come lo abbiamo conosciuto. Per chi è interessato, domenica 12 gennaio, ne parlerò brevemente con Paolo di Paolo a La lingua batte (su radio3 Rai, dalle 10,45) nel dodicesimo compleanno della trasmissione.
10.1.2025 11:47Dall’unificazione dell’italiano al suo sfaldamento: l’itanglese e le sue causeDi Antonio Zoppetti Code switching e code mixing Il concetto ottocentesco di italiano popolare – che nel Novecento De Mauro aveva definito come il modo di esprimersi istintivo degli incolti che tendono a utilizzare la lingua nazionale – nasceva in una realtà dialettofona dove il popolo faticava a fare a meno del proprio lessico regionale e familiare e ricorreva a costrutti stentati, espressioni improprie o errori veri e propri. Questo modo di esprimersi a spanne si confrontava con il modello dell’italiano “standard” a base toscana, quello che si insegna a scuola e che si trova nelle grammatiche. A partire dagli anni Sessanta del secolo scorso, grazie soprattutto alla scolarizzazione, alla televisione, ai mezzi di informazione e ai rimescolamenti sociali, l’italiano è diventato il modo di esprimersi naturale del “popolo” ed è diventato patrimonio di tutti. Ma il ricorso ai dialetti non è scomparso, e spesso le espressioni regionali riaffiorano e vengono o mescolate all’italiano in modo inconsapevole e istintivo, ma anche voluto. In un (buon) libro di una ventina di anni fa – L’italiano contemporaneo di Paolo D’Achille (Il Mulino 2003, pp. 178-179) – si legge che “i concetti, elaborati recentemente, di code switching e di code mixing hanno messo l’accento sui casi, tutt’altro che rari, in cui un parlante alterna, all’interno di uno stesso enunciato, lingua e dialetto”. Proviamo a buttare via questa terminologia in inglese che viene esibita come quella “ufficiale” degli addetti ai lavori, che il lettore è indotto ad apprendere e a ripetere come la soluzione più tecnica. Secondo l’autore, che è oggi diventato il presidente della Crusca, la commutazione di codice (code switching) è un modo di procedere intenzionale in cui il parlante mescola consapevolmente i due codici. Gli enunciati mistilingui (code mixing), invece, costituiscono una mescolanza tra i due codici che non è intenzionale “ma è dovuta prevalentemente alle incertezze del parlante e in particolare a una sua conoscenza approssimativa dell’italiano.” Oggi, però, questi mischioni si verificano con l’inglese, più che con i dialetti, e non riguardano più l’italiano degli incolti, ma quello delle nuove classi dirigenti ed egemoni. Proviamo allora a seguire questa distinzione per applicarla al caso dell’inglese, e vediamo dove ci conduce. L’italiano standard e neostandard Visto che tanto più una lingua si estende a tutti tanto più si uniforma e livella, la distinzione tra italiano popolare e standard ha cominciato a perdere di senso. Per descrivere il nuovo italiano unitario delle masse, negli anni Ottanta sono state create nuove etichette: Francesco Sabatini ha parlato dell’avvento di un “italiano medio”, che Gaetano Berruto ha invece chiamato “neostandard” (Arrigo Castellani, avverso agli anglicismi, preferiva italiano “normale” cioè della norma). Questo nuovo italiano di massa include molti costrutti che si discostano dalle norme dell’italiano standard – una volta erano inammissibili nell’italiano letterario o colto – ma oggi sono ormai accettati nel parlato, e si stanno estendendo anche alla lingua scritta soprattutto nei contesti giornalistici; per esempio l’atavica questione dell’uso del pronome “lui” come soggetto, oppure le forme che semplificano il periodo ipotetico con il doppio imperfetto (“se lo sapevo non venivo” al posto di “se lo avessi saputo non sarei venuto”). Oggi, però, questo nuovo italiano non si confronta più con i dialetti, ma con l’interferenza dell’inglese. E allora, partendo proprio dalle analisi di importantissimi linguisti, mi pare che siamo in presenza di un “italiano newstandard” – come l’ho chiamato – che è caratterizzato dal ricorso smodato all’inglese, ormai accettato nel parlato e nello scritto proprio nei giornali, nelle istituzioni e nei contesti formali. Se fino al Novecento l’interferenza dell’inglese era limitata alle singole parole, oggi siamo in presenza di un fenomeno di ben altra portata, in cui assistiamo a commutazioni di codice – talvolta preferite, di maggior prestigio o considerate “necessarie” – che ricorrono sempre più spesso a espressioni più ampie del singolo vocabolo (es. family day con inversione sintattica che produce poi combinazioni ibride come matematica day). Gli enunciati mistilingui inconsapevoli, che per parafrasare De Mauro potremmo definire come il modo di esprimersi istintivo e incolto dei non anglofoni che tendono a utilizzare l’inglese, producono pseudoanglicismi maccheronici non solo in parole come footing e autostop, ma anche in locuzioni più complesse come beauty case, smart working o italian sounding che nei Paesi anglofoni non sono in uso. Perché i linguisti, così scrupolosi nel descrivere l’italiano neostandard nel suo rapporto con l’italiano regionale, non applicano gli stessi approcci anche per descrivere il nuovo italiano anglicizzato? Perché molti di loro continuano a ridimensionare il fenomeno “itanglese” che alcuni addirittura negano? Comunque sia, il problema non è linguistico, ma culturale. Sta di fatto che questo itanglese non solo esiste in modo ben più significativo delle commistioni dialettali, ma si sta allargando e configurando come un ben preciso modello stilistico ricercato. Un modello in cui tanto più si fa ricorso all’inglese – intenzionale o istintivo – tanto più una comunicazione è presentata come moderna, internazionale o di prestigio. Per fare qualche esempio, riporto alcune delle tantissime segnalazioni che mi sono arrivate nell’ultima settimana. Il sito di Rho e i verbi in inglese Daniel Panizza mi segnala, affranto, il sito del comune di Rho, nel milanese, che ha scelto l’itanglese come lo stile con cui rivolgersi ai lettori. Si chiama “Visit Rho” (https://visitrho.it/), e colpiscono non solo i titoli in inglese a caratteri cubitali a cui segue in piccolo una didascalia in italiano (es. “REBUILD. In giro per Rho”), non solo gli anglicismi (“bike tour”) e la sistematica introduzione delle & commerciali (“Food&Wine”, “Storia&Cultura”, con l’uso delle maiuscole all’americana), ma soprattutto il menù di navigazione che ricorre ai verbi inglesi che spingono all’azione (“Explore”, “See&Do”, “Plan your trip”). Fino a una decina di anni fa il fenomeno dei verbi inglese era del tutto sconosciuto nella lingua italiana, e tutti i linguisti erano concordi nel ritenere che gli anglicismi che penetravano erano solo sostantivi o in minor consistenza aggettivi. Ma oggi qualcosa è cambiato (cfr. “In principio era il verbo, ma alla fine sarà il verb?”) e dopo le prime timide entrate di rare espressioni come relax, enjoy, vote for, stop, remember, don’t worry¸ relax, fuck you… ecco che oggi un sito istituzionale introduce intenzionalmente i verbi in inglese. Queste forme (explore, plan, see) tecnicamente non sono “anglicismi” da vocabolario, nel senso che la frequenza delle singole voci impiegate non ha una sua estensione significativa. Quello che si sta estendendo è invece l’intenzionale ricorso agli enunciati misti, ma anche l’inconsapevole e istintivo passaggio alla commutazione di codice. Come descrivere questo linguaggio proprio alla luce delle speculazioni dei linguisti? Questo non è più italiano neostandard, mi pare semmai newstandard. Dalla “prossima summer” di MalpensaNews al “me time” di Elle Domenico Calabrese mi ha rigirato una comunicazione dell’aeroporto di Malpensa che spiega ai cittadini italiani che dalla “prossima summer” il volo Milano-Hong Kong sarà giornaliero. La prossima summer? Ma siamo impazziti? No. Purtroppo questa è la terminologia che l’aeroporto ha deciso non solo di utilizzare in modo consapevole (code switching per dirla con quelli bravi) ma che difende in modo orgoglioso. Daniele Imperi ha scritto la sua protesta alla redazione, e ha ricevuto come risposta il rimando a un articolo in cui si spiega perché in aviazione si dice summer al posto di estate (“In aviazione ci sono solo due stagioni, winter e summer”). Le argomentazioni sono imbarazzanti nella loro confusione e vaghezza, perché mancano i nessi di causa effetto alla base di ogni ragionamento. Si parte con l’affermare: “È un uso – per così dire – tecnico, perché nel mondo dell’aviazione non esistono le mezze stagioni, primavera e autunno: la programmazione dei voli è definita in due momenti di passaggio, a ottobre e marzo.” Cosa c’entra con la scelta di ricorrere all’inglese? Nulla, come chiunque dotato di una mente sana comprende. Anche le divise dei carabinieri sono estive o invernali e si cambiano due volte all’anno, il che non implica di certo di rinominare le stagioni inglese. La realtà arriva poco dopo: “Dagli anni Settanta la complessità della programmazione delle connessioni aeree ha richiesto una procedura coordinata che è gestita dalla Iata (International Air Transportation Association), l’associazione privata che raccoglie circa 320 compagnie aeree in 130 Paesi del mondo (e che insieme fanno quasi l’85% dei passeggeri globali). La ridefinizione degli slot avviene nell’arco di tutto l’anno, ma viene fatta tenendo conto appunto di due grandi periodi, le due stagioni ‘summer’ e ‘winter’. Questa coordinazione mondiale riguarda tutti gli aeroporti principali”. Allora la verità è ben diversa: l’inglese è diventato la lingua ufficializzata nell’aviazione, e passando dagli anni “Settanta” ai nostri giorni, la novità è che qualcuno oggi ha deciso di impiegare questa terminologia non solo nell’ambito interno degli addetti ai lavori, ma di imporla ai cittadini. Dunque, invece di usare la lingua italiana si sceglie di usare l’inglese e si vende questa scelta come tecnicismo. Da notare – tra le righe – anche un modo di esprimersi, forse inconsapevole, che ricorre in modo sistematico a “slot” (sottinteso: “di tempo”) al posto di periodo di tempo, finestra temporale o qualunque altra espressione in italiano che probabilmente non viene più in mente a chi lo sostituisce con la stereotipia meccanica basata sull’inglese che impoverisce il nostro lessico, invece di arricchirlo. Tutto ciò non mi pare inquadrabile come “italiano neostandard”, ma come itanglese. Intanto Daniele mi segnala anche un pezzo sulla rivista Elle che come se fosse la cosa più normale del mondo ci spiega “Cos’è il ‘me time’ e perché è importante prendersi del tempo per sé”. L’articolo – di stampo coloniale – riprende un libro in inglese, che esprime i propri concetti in inglese come accade nelle lingue sane, e li trapianta nella nostra realtà in un abbandono dell’italiano. La divulgazione del “me time” venduta come di maggior prestigio non è isolata, c’è qualche precedente e si appoggia anche a un titolo di un film del 2022 (Me Time – Un weekend tutto per me) che segue lo stesso schema, visto che ormai i titoli dei film sono esportati direttamente in inglese, solo talvolta affiancati da una traduzione italiana secondaria. E passando dai giornali e dal cinema all’editoria, Daniele mi ha girato anche la scheda di un libro della Salani che recita: “Per la prima volta in libreria la complete edition del romanzo già vincitore ai Watty Awards”. Che razza di anglicismo è “complete edition”? Questo abbandono dell’italiano (standard o neostandard) arriva da un importante editore, altro che dagli incolti che vogliono avvicinarsi all’italiano. Qui gli attori che fanno la lingua sono i ceti colti che vogliono approssimarsi all’inglese. E a proposito di cultura, la notizia recente ripubblicata da Italofonia.info è che i dati Invalsi del 2024 mostrano che gli studenti delle medie sono più preparati in inglese che non in italiano, e che persino gli insegnanti delle materie scientifiche chiedono alla scuola di insegnare di più l’italiano, perché la scarsa conoscenza del lessico e della grammatica stanno cominciando a inficiare anche l’insegnamento delle altre materie. L’itanglese, o se si vuole l’italiano newstandard, nasce in questo contesto dove l’italiano regredisce su tutti i fronti, nelle scuole e tra le nuove generazioni così come nei ceti colti. Mentre scrivo, in televisione sta passando una pubblicità di un olio italiano. La marca è Olitalia e il prodotto si chiama Best Frienn. “Frienn” è una voce dialettale del napoletano che si riferisce al friggere, ma nella commistione con l’inglese e con l’italiano (come nell’anglonapoletano di Pino Daniele) i giochi di parole utilizzati sono fuori dall’italiano standard e neostandard: “OLITALIA È il best Frienn dei migliori chef italiani È il best Frienn del re dello street food È il best Frienn di chi vuole un fritto croccante, asciutto e di qualità È il best Frienn di chi vuole un fritto a casa come al ristorante e da oggi sarà anche il tuo best Frienn … Olitalia, la marca preferita dagli chef italiani.” Gli esempi di questa frittura cerebrale potrebbero continuare all’infinito. In questo scenario, non mi capacito della mancanza di attenzione da parte dei linguisti per questo fenomeno e per le sue conseguenze. Ma soprattutto, in questo voltarsi dall’altra parte, colpisce la mancanza di un dibattito serio sulla lingua più in generale, e il silenzio vergognoso degli intellettuali e dei rappresentanti della cultura, ma anche dell’opinione pubblica. La condanna di Xmas dell’Anpi L’ultima segnalazione che voglio riproporre è quella di Carlo Vurachi che mi ha rigirato un articolo in cui l’Associazione Nazionale Partigiani d’Italia della Carnia esprime “Sorpresa e disappunto per ‘Xmas’ a Forni di Sopra”. Il fatto è che sulle luminarie c’è scritto “Xmas” al posto di “Buone feste”… ma il problema non è che la comunicazione ufficiale sia fatta in inglese – una barbarie a cui siamo ormai assuefatti – bensì che il ricorso alla formula Xmas evochi la X (= decima) Mas, la milizia fascista della Repubblica Sociale Italiana che si alleò con i nazisti a cui personaggi come il generale Vannacci, recentemente, si sono aggancianti difendendo l’indifendibile. Questo è il motivo dell’indignazione, mentre nei confronti della dittatura dell’inglese tutto tace. Eppure sarebbe ora di organizzare la Resistenza. Andrebbe bene anche la resilienza, come è di moda dire adesso, l’importante è salvaguardare il nostro patrimonio linguistico in modo che si evolva senza snaturarsi, attraverso neologismi che possono benissimo provenire dall’anglosfera, ma che se non sono tradotti e italianizzati finiscono con il mandare in frantumi la continuità storica del bel paese dove il sì suonava.
16.12.2024 11:40L’italiano newstandard: dagli anglicismi agli enunciati mistilinguiDi Antonio Zoppetti La scorsa settimana ho raccolto un po’ di nuovi anglicismi che hanno fatto la loro comparsa nei titoli del Corriere.it, urlati in bella vista e messi in primo piano (ma lo stesso vale anche per le altre testate). Lo scopo di un quotidiano dovrebbe essere quello di informare, ma c’è modo e modo per farlo. Un tempo la prima regola virtuosa dell’informazione era quella di usare un linguaggio comprensibile per il destinatario, perché la trasparenza era considerata una virtù. Oggi prevale la strategia del latinorum di don Abbondio, realizzata però attraverso l’inglesorum, che consiste in una comunicazione dove il mittente non si pone affatto sullo stesso piano del destinatario, ma cala dall’alto le informazioni con l’intento di educarlo, attraverso una lingua superiore fatta di una terminologia in inglese che impone al lettore. E così in un articolo etichettato sotto la categoria “Tech e norme” leggiamo: “Cos’è il ‘part pairing‘ e perché abolirlo aiuterebbe il diritto alla riparazione dei dispositivi tech”. Part pairing A chi si rivolge un articolo con un titolo del genere? Solo uno sparuto numero di addetti ai lavori sa già di che cosa si stia parlando, tutti gli altri, che si vogliono far sentire ignoranti, dovranno leggere l’articolo per comprendere il significato dell’espressione in inglese, e dopo quella lettura avranno finalmente imparato “come si dice”. È in questo modo che gli anglicismi escono dai linguaggi settoriali e gergali ed entrano nella lingua comune. Il punto è che non è vero che si dice così, sono i giornali (e i giornalisti) che fanno in modo che si dica così. Part pairing circola da qualche tempo in ambito tecnologico, la novità è quella di sbandierarlo come la soluzione di tutti, anche se per il momento è ancora riportato tra virgolette, almeno fino al prossimo pezzo in cui si potranno lasciar cadere perché ormai l’espressione è stata legittimata. Leggendo il pezzo si trova la frase: “Bisogna eliminare le pratiche di abbinamento delle parti, detto anche part-pairing”, ma nel titolo la prospettiva è invertita, non dice “perché l’abbinamento delle parti è un danno”, ma diffonde al contrario l’espressione in inglese come se fosse l’unica possibilità espressiva. Per capire di cosa diamine si stia parlando bisogna premettere che le aziende produttrici di prodotti tecnologici informatici puntano a fare in modo che sia più conveniente comprare un cellulare nuovo, invece di riparare quello vecchio. Le riparazioni non sono solo costose, ma richiedono tempi lunghi, e sono volutamente ostacolate da aziende come Apple: chi possiede due cellulari dello stesso modello, per esempio, non può utilizzare un pezzo di ricambio del primo per sostituirlo con l’analogo guastato del secondo, perché i componenti sono concepiti per non essere intercambiabili, e se il numero seriale di ogni parte è diverso da quello abbinato dal fabbricante la compatibilità salta e rischia di non funzionare o di funzionare male. La questione è dunque quella della “compatibilità dei componenti”, o della sostituibilità dei ricambi, ma si tratta di un’espressione in italiano che arriva a tutti, e lo stile giornalistico privilegia la cultura coloniale: si prende ciò che arriva dagli Stati Uniti, in angloamericano, e lo si rigira agli italiani da colonizzare linguisticamente. Il giornalista, attraverso la scelta dell’inglese vissuto come scelta stilistica superiore, agisce in questo modo da “collaborazionista”, rinuncia all’italiano e diffonde l’inglese come la scelta più appropriata. La giustificazione è sempre la stessa: è un tecnicismo, un internazionalismo, una parola più moderna; oppure: non abbiamo già equivalenti, o ancora: è intraducibile. La verità è che la nuova classe egemone che si sta affermando è legata all’inglese, lo preferisce e lo sostituisce all’italiano. Sharenting Lo stesso schema, divenuto strategia ricercata in modo sistematico, vale per lo “sharenting” – parola macedonia d’oltreoceano che fonde share = condividere e parenting = genitorialità – che sul sito del garante della privacy (ennesimo anglicismo divenuto istituzionale senza un perché) è definito come “il fenomeno della condivisione online costante da parte dei genitori di contenuti che riguardano i propri figli/e (foto, video, ecografie)”. È un’espressione piuttosto lunga, complessa e impraticabile rispetto all’inglese che in questo modo si vuole affermare. In italiano il problema è semplicemente quello dell’esposizione dei minori, o della loro sovraesposizione, in rete o mediatica (il fatto che poi siano malati, come nel titolo, non c’entra nulla). Per citare un’altra definizione coloniale tratta da un sito in “italiano” denominato “Cyber Security 360”: “Da qualche tempo la condivisione forsennata, ossessiva e fuori controllo di immagini di minori on line ha un nome: sharenting.” Il nuovo concetto è dunque battezzato in inglese in questo modo perentorio e definitivo. Come se non ci fosse altro da fare e da dire. Certo, è un po’ difficile ricorrere all’italiano in un contesto in cui ciò che è in linea si dice online, le piattaforme sociali sono social, la messaggistica è chat, la rete è web, la riservatezza è privacy… perché anglicismo dopo anglicismo l’italiano regredisce e diventa impossibile ancorarsi a concetti espressi nella nostra lingua, visto che sono ormai sostituiti con quelli inglesi. Nelle lingue sane, davanti a concetti nuovi si possono sempre coniare neologismi, ma da noi quale giornalista, traduttore, sociologo o intellettuale potrebbe proporre soluzioni creative e comprensibili per indicare il mettere in piazza un minore? Come ai tempi del purismo, creare neologismi sembra un reato, più che una possibilità creativa di ogni parlante, e nell’attuale cultura coloniale in cui non si fa che introdurre passivamente ogni nuovo concetto in inglese prevale l’atteggiamento che ho chiamato “anglopurismo”: nel nuovo contesto il neologismo è impensabile, se non c’è già una parola nell’uso storico si ricorre all’inglese. Punto. Ma è sempre meglio ricorrere all’inglese anche in presenza di parole già affermate, dunque il calcolatore è sostituito dal computer, le bisteccherie e le griglierie dalle steakhouse, il pettegolezzo dal gossip, gli assassini dai killer, il pappagallismo è sostituito dal catcalling, e via dicendo. Perché la nuova classe egemone è formata da pappagalli che sanno solo guardare e ripetere in modo supino ciò che arriva dall’anglosfera, invece di appropriarsene attraverso i concetti in italiano. Come si vede nel caso delle etichette cage free. Cage free Le associazioni internazionali che si occupano dei diritti dell’uomo, degli animali o delle questioni ecologiche sono spesso utili e fanno cose importanti, tuttavia la loro sensibilità per le minoranze calpestate non contempla affatto il tema della lingua. E dal punto di vista linguistico queste organizzazioni sono delle realtà coloniali che si esprimono in angloamericano ed esportano l’angloamericano senza alcuna attenzione o rispetto per le altre culture e il plurilinguismo. Senza fare di tutta l’erba un fascio, l’attuale revisionismo linguistico in nome di un “politicamente corretto”, che spesso cela il “politicamente statunitense”, esporta soprattutto una visione e una cultura “occidentale” che si vuole rendere universale (anche questo è colonialismo culturale) la cui deriva è stata chiamata da Luca Ricolfi “Follemente corretto. L’inclusione che esclude e l’ascesa della nuova élite” (La Nave di Teseo). Mentre qualche (social)linguista ci vuol far credere che la lingua arrivi dal basso, la realtà è appunto che la lingua – come avevano capito Gramsci, Pasolini ma anche Orwell e qualunque persona capace di intendere e di volere – si irradia dall’alto, dalle classi egemoni e dominanti, come un modello che poi è preso a imitazione dalle masse. E l’ascesa di questa nuova egemonia culturale che sa solo guardare e ripetere ciò che arriva d’oltreoceano sta anglicizzando ogni settore, dunque la spesso condivisibile battaglia delle associazioni che si battono contro le discriminazioni genera una non altrettanto condivisibile terminologia fatta di climate change invece di cambiamento climatico, di body shaming invece di derisione fisica, di gender al posto di genere… In questo contesto, mentre si moltiplicano le diciture come smoke free, sugar free, gluten free, carbon free, cruelty free… le associazioni degli ambientalisti hanno chiesto l’introduzione di un’etichetta che indichi i prodotti di derivazione animale allevati senza gabbie, in nome della dignità degli animali e anche del rispetto della scelta dei consumatori. Purtroppo senza alcun analogo rispetto per la lingua italiana hanno pensato di chiamare tutto ciò non “senza gabbie” ma “cage free”, ennesima soluzione coloniale che oltretutto non è affatto trasparente per i consumatori (ma chissenefrega, si abitueranno e impareranno a usare la lingua dei padroni). L’attuale governo dei sovranisti-underdog, che hanno creato il ministero del Made in Italy invece del prodotto italiano o i progetti che puntano a diffondere l’italianità nel mondo come Open to meraviglia, hanno però respinto questa istanza. Personalmente spero che in futuro un simbolo del genere sia invece introdotto, a patto che sia scritto in italiano e sia trasparente. E a proposito di trasparenza vale la pena di introdurre l’ultimo anglicismo odierno che i giornali ci vogliono imporre: il quishing. Quishing La questione delle truffe in Rete è piuttosto grave, ed è un problema sociale che riguarda soprattutto chi non è uno smanettone e dunque è più fragile. E qual è il modo migliore per tentare di tutelare le potenziali vittime, magari anziane? Quello di parlare di quishing ovviamente. Analizziamo la situazione coloniale della terminologia informatica (dove si parla di cybersicurezza con la y per puntare all’itanglese). Le frodi informatiche che puntano alla sottrazione dei dati personali via e-mail (non posta elettronica, per carità) sono state chiamate nella lingua dei padroni: phishing, che un utente medio non sa affatto cosa sia (dunque anche proteggersi rischia di essere complicato). Se invece lo stesso tipo di raggiro avviene attraverso una chiamata telefonica tutto ciò si chiama vishing (da voice + phishing), ma se avviene via sms è detto smishing. Quando si ha a che fare con un sito falso e ingannevole su cui l’utente è indirizzato al posto del sito legittimo si parla di pharming. E se la nuova frontiera del raggiro opera attraverso i codici QR che altro possiamo fare se non parlare di quishing? Del resto siamo in un Paese dove il sistema nazionale di allarme pubblico è stato chiamato IT Alert e dietro queste scelte non c’è alcuna volontà di rivolgersi agli italiani in modo comprensibile e nella loro lingua, c’è solo la volontà di catechizzare tutti attraverso l’anglicizzazione di ogni cosa. Un tempo c’erano i codici a barre, più che i bar code, ma poi non sono arrivati i codici Qr, bensì direttamente i Qr code (con inversione sintattica), così come dalla benzina verde arrivata prima del compimento del colonialismo linguistico del nuovo millennio, siamo passati al green del green pass e della green economy e di altre decine e decine di simili ricombinazioni. Se si conteggiano tutte le innovazioni in inglese che i giornali diffondono e affermano quotidianamente c’è da mettersi le mani nei capelli. Se questi 4 casi di inglese sono emersi in una settimana, significa che abbiamo a che fare con circa 200 neologismi in inglese all’anno, mantenendo questa media. A cui si aggiungono tutte le parole in inglese meno nuove che vengono quotidianamente ripresentate e che rafforzano in questo modo il loro radicarsi. Certo, non tutte queste entrate sono destinate ad affermarsi e a stabilizzarsi, ma c’è un piccolo particolare che viene di solito trascurato: per ogni anglicismo che si radica ce ne sono almeno dieci che pur essendo passeggeri e usa e getta circolano. E complessivamente, questo inglese travolge l’italiano. Poco importa che ci siano 9 anglicismi effimeri e 1 che si stabilizza, alla fine sono sempre 10 all’interno di un testo in itanglese, e i 9 che scompariranno non lasceranno il posto all’italiano, ma ad altri anglicismi. Questo è poco ma sicuro. Qualche linguista furbo continua a ripetere le stesse cose che avevano un senso negli anni Ottanta, e analizzando le frequenze delle parole inglesi conclude che tanto sono basse, senza però sommarle e senza comprendere che le 4.000 parole inglesi registrate nei dizionari, anche fossero tutte di bassa frequenza (e non è così) complessivamente hanno una dimensione e un impatto enormi. Qualche altro linguista, ancora più sveglio, per non ammettere che abbiamo un problema se ne esce con la solita tiritera per cui anche se i giornali effettivamente abusano un pochino dell’inglese… tanto la gente mica parla davvero così… una sciocchezza che non solo non è corroborata dai dati (non esistono corpora significativi sull’oralità, al contrario di quelli basati sulla scrittura), ma soprattutto non tiene conto del ruolo storico dei mezzi di informazione nel fare la lingua. Mentre questi patetici negazionisti, dagli anni Ottanta, ci spiegano che gli anglicismi sono “pochi” fornendo ogni volta una fotografia statica del fenomeno, la lingua cambia continuamente e le parole inglesi aumentano. E invece di concludere ogni volta che sono “pochi”, chi è onesto dovrebbe guardare alla crescita del fenomeno, per farsi un’idea di dove stiamo andando. La realtà è che siamo alla frutta. Diventerà il frutting?
2.12.2024 16:12A scuola di anglicismi (e di itanglese) con i giornali