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Il tramonto delle Pleiadi e le galassie lontane

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Sequenza di immagini simulate con il software Stellarium dell’occultazione delle Pleiadi da parte della Luna. A partire dalle ore 22:50 fino al tramonto dei due astri

Questo mese inizia con una interessante occultazione delle Pleiadi da parte della Luna. Purtroppo in questa stagione le sette sorelle sono piuttosto basse e visibili nella prima parte della notte e l’occultazione avverrà con l’ammasso stellare al tramonto.

Sarà comunque interessante osservare il fenomeno con un binocolo, perché la Luna mostrerà una falce sottile e le Pleiadi verranno occultate con il lembo non illuminato del nostro satellite, che le farà sparire una a una. Le potete osservare a ovest dopo il tramonto del sole fino a poco dopo le 23:30, quando tramonteranno anche loro. Ma vista la vicinanza prospettica con l’orizzonte potrebbe essere un’ottima occasione per scattare qualche fotografia di panorama astronomico.

I pianeti più visibili sono Giove e Marte. Giove visibile per la prima parte della notte nella costellazione del Toro, Marte visibile anche fino a tarda notte in quella dei Gemelli.

Venere riappare al mattino prima del sorgere del sole e il giorno 24 raggiungerà la sua massima luminosità con una magnitudine di -4.5. Bella sarà la congiunzione con la Luna e Saturno il giorno 25, visibile all’alba bassa sull’orizzonte est.

Anche questo mese è ottimo per osservare le galassie. Con le costellazioni della Vergine, della Chioma di Berenice, del Leone dell’Orsa Maggiore e dei Cani da Caccia in posizione ottimale, c’è proprio da sbizzarrirsi. Per osservarle, tuttavia, servono un telescopio e un cielo buio, lontano da inquinamento luminoso.


La galassia Sombrero, o M104, ripresa dai cieli di Bologna e come potrebbe essere vista con un medio telescopio e cieli bui. Crediti: F. Villa

Il periodo migliore di osservazione è quando la Luna non schiarisce il cielo, ossia nei primi cinque giorni del mese e dopo il 17. Nella costellazione dell’Orsa Maggiore c’è la coppia di galassie M81 e M82, che è possibile intravedere anche con un buon binocolo. C’è poi la spettacolare M51, sotto il timone del Grande Carro, nella costellazione dei Cani da Caccia, e spostandoci verso la costellazione del Leone, poi della Chioma di Berenice e infine della Vergine, una miriade di altre galassie.

Segnaliamo, per la sua particolare forma, la galassia M104, o galassia Sombrero, situata in una zona di cielo tra la costellazione della Vergine e del Corvo. Vista con un piccolo telescopio la sua forma assomiglia effettivamente al copricapo messicano, e ci fa presagire l’arrivo della stagione più calda. Ma prima godiamoci la primavera!

Guarda su MediaInaf Tv la videoguida al cielo del mese a cura di Fabrizio Villa:

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31.3.2025 17:31Il tramonto delle Pleiadi e le galassie lontane
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Sarà Airbus a costruire il lander per Rosalind

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La missione Exobiology on Mars (ExoMars) dell’Agenzia spaziale europea avrà il suo lander. A costruire il modulo chiave del sistema di atterraggio sarà Airbus. Ad annunciarlo, il 29 marzo scorso, è la stessa azienda in un comunicato stampa.

Airbus è stata selezionata dall’Esa e da Thales Alenia Space, principale contraente industriale di ExoMars, aggiudicandosi un appalto dal valore di circa 179 milioni di euro. La scelta di un nuovo appaltatore per la realizzazione del lander si è resa necessaria a seguito della sospensione della collaborazione tra Esa e Roscosmos, l’agenzia spaziale russa che avrebbe dovuto svilupparlo, in risposta all’invasione russa dell’Ucraina.


Rappresentazione artistica del rover Rosalind di ExoMars. Crediti: Esa

ExoMars “Rosalind Franklin” è la seconda missione del programma ExoMars – la prima, lanciata il 14 marzo 2016 dal cosmodromo di Bajkonur, comprende il Trace Gas Orbiter (Tgo), una sonda attualmente operativa nell’orbita di Marte.

Il rover Rosalind Franklin, così chiamato in onore della scienziata britannica che contribuì alla scoperta della struttura molecolare del Dna, è il primo rover progettato per perforare il suolo di Marte fino a due metri di profondità. Il suo obiettivo sarà raccogliere e analizzare campioni per individuare eventuali tracce di vita, presente o passata, in strati del sottosuolo meno esposti alle condizioni estreme della superficie. La missione, inoltre, avrà un ruolo chiave nella dimostrazione di tecnologie fondamentali per le future esplorazioni planetarie, tra cui quelle necessarie per un atterraggio sicuro su un altro pianeta.

A garantire il trasporto del rover sulla superficie marziana, come anticipato, sarà il lander sviluppato da Airbus. Il modulo della missione avrà il compito di gestire le fasi finali della discesa, riducendo la velocità da 45 metri al secondo a meno di 3 metri al secondo grazie a un sistema di razzi frenanti. Dopo l’atterraggio, inoltre, il lander dispiegherà due rampe su lati opposti, permettendo al rover di iniziare la sua esplorazione attraverso il percorso più sicuro.

«Dopo l’uscita di Roscomos dalla missione Exomars, vi era la necessità di riprogrammare la missione con un nuovo sistema di atterraggio, inclusa la piattaforma. Questo ha richiesto un enorme sforzo da parte dell’Esa», dice a Media Inaf Maria Cristina De Sanctis, astrofisica all’Inaf Iaps di Roma e responsabile di Ma_Miss, uno degli strumenti del rover Rosalind di ExoMars. «La scelta del provider, continua la ricercatrice, «indica che ci stiamo avvicinando alla realizzazione finale della piattaforma, un passo fondamentale per poter lanciare nei tempi previsti».

Su contratto con la Thales Alenia Space, la società che guida l’intera missione ExoMars, il team di ingegneri della Airbus di Stevenage, nel Regno Unito, svilupperà tutti i sistemi della piattaforma – meccanici, termici e di propulsione – con l’obiettivo di garantire un touchdown sicuro del rover.


Rappresentazione artistica del nuovo lander di ExoMars. Crediti: Airbus

Nel frattempo, Esa, l’industria europea e la Nasa stanno continuando a lavorare alla manutenzione e all’aggiornamento del rover e dei suoi strumenti. Tra gli interventi previsti rientrano l’installazione di unità di riscaldamento per proteggere il rover dalle rigide temperature marziane e lo sviluppo di una nuova modalità software, che gli consentirà di passare rapidamente alla guida autonoma subito dopo l’atterraggio.

«Nella realizzazione del lander ci sono varie, delicatissime, questioni che Airbus dovrà tenere sotto controllo», sottolinea De Sanctis. «Penso che i tempi di realizzazione siano molto stretti e che questo possa essere un punto molto serio nella costruzione e test del sistema. Vista la complessità delle condizioni che si dovranno affrontare, come ad esempio la gravità, la mancanza di atmosfera, i venti e le tempeste di polvere, portare un rover su Marte è una enorme sfida. Basta un piccolo “errore” per vanificare gli sforzi pluridecennali di centinaia di persone. Per migliorare le performance o per essere certi di non arrivare su Marte con parti non “nuovissime” e soggette a deterioramento, in alcuni strumenti si stanno sostituendo dei sottosistemi. Ad esempio, lo strumento Ma_Miss – di cui noi siamo responsabili – sostituirà il calibration target con uno nuovo, con performance maggiori di quello attualmente previsto. Lo stesso vale anche per alcune parti del rover che vengono continuamente monitorate e sottoposte a test di verifica di funzionamento».

La commessa con Airbus segna un importante passo avanti per il programma ExoMars. Un risultato reso possibile grazie all’impegno dell’Esa e dei suoi stati membri, insieme a una rinnovata collaborazione con la Nasa. Dopo diversi rinvii dovuti a vari problemi, l’ultimo dei quali, come detto, legato a questioni geopolitiche, la nuova finestra di lancio della missione è ora prevista tra ottobre e dicembre del 2028, con arrivo sul pianeta nel 2030.

«La finestra di lancio programmata è tale da garantire che la missione “nominale” su Marte possa essere espletata prima dell’inizio della stagione delle tempeste di polvere», spiega a questo proposito De Sanctis. «Un ritardo del lancio potrebbe implicare uno slittamento piuttosto cospicuo della data. In questo caso, infatti, per garantire il successo della missione, bisognerebbe aspettare la fine di tale stagione».

«Portare il rover Rosalind Franklin sulla superficie di Marte è una grande sfida internazionale e il culmine di oltre vent’anni di lavoro», dice Kata Escott, amministratrice delegata di Airbus Defence and Space Uk. «Siamo orgogliosi di aver costruito il rover nella nostra modernissima camera bianca di Stevenage. Ora, siamo entusiasti di sviluppare il progetto per assicurarne la consegna sicura su Marte».

31.3.2025 17:03Sarà Airbus a costruire il lander per Rosalind
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Spiraleggiando attorno a un anello di Einstein

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La nuova immagine del mese del telescopio spaziale James Webb ha per protagonista un raro fenomeno cosmico: un anello di Einstein. Quella che a prima vista sembra una singola galassia dalla forma strana è in realtà una combinazione di due galassie, a grande distanza l’una dall’altra. La galassia più vicina, quella in primo piano, la vediamo proprio al centro dell’immagine qui sotto: è la “pupilla” bianco verdognola dell’enorme “occhio” immortalato da Jwst. La galassia sullo sfondo, fisicamente molto più lontana, è quella sorta di sottile “iride” azzurrognola screziata di bianco che sembra avvolgere la galassia più vicina, la “pupilla”, dando origine – appunto – a un anello.


Al centro dell’immagine (cliccare per una versione zoomabile) vediamo una galassia ellittica, che appare come un bagliore di forma ovale attorno a un piccolo nucleo luminoso. L’ampia fascia di luce tutt’attorno è una galassia a spirale allungata e distorta a formare un anello, con linee blu luminose in corrispondenza dei bracci della spirale, qui allungati e piegati fino ad apparirci come cerchi. Al di fuori dell’anello, su sfondo nero, sono visibili alcuni oggetti lontani. Crediti: Esa/Webb, Nasa & Csa, G. Mahler

Gli anelli di Einstein si formano quando la traiettoria della luce proveniente da un oggetto molto distante viene deviata, piegata – lensed, in inglese – attorno a un oggetto massiccio intermedio che agisce da lente. Questo è possibile perché lo spaziotempo, il tessuto dell’universo, è deformato dalla massa della “lente”, di conseguenza anche la traiettoria della luce che viaggia nello spazio e nel tempo risente di questa deformazione, deviando lungo il suo percorso verso noi osservatori e dando origine a immagini deformate – ingrandite, amplificate, come se avesse attraversato una lente. Questo effetto è troppo lieve per essere colto a livello locale, ma può diventare chiaramente visibile quando si ha a che fare con curvature della luce su scale astronomiche, come è appunto il caso della luce emessa da una galassia lontana e piegata intorno a un’altra galassia – o a un ammasso di galassie – fra la sorgente e noi osservatori.

Quando l’oggetto che agisce da lente e l’oggetto in lontananza che sta “sotto la lente” si trovano a essere – rispetto a noi che li osserviamo – correttamente allineati, il risultato può essere la caratteristica forma ad anello di Einstein mostrata nell’immagine: un cerchio completo – come in questo caso – o un cerchio parziale di luce intorno all’oggetto “lente”, a seconda della precisione dell’allineamento. Configurazioni come questa sono il laboratorio ideale per la ricerca di galassie troppo deboli e distanti per essere viste in altro modo.

La galassia che agisce da lente al centro dell’anello di Einstein osservato da Jwst è una galassia ellittica, come si può vedere dal suo nucleo luminoso e dal suo “corpo” liscio e privo di caratteristiche, e fa parte dell’ammasso di galassie Smacs J0028.2-7537. La galassia che vediamo – ingrandita e distorta – avvolgere la galassia ellittica è invece una galassia a spirale. Anche se la sua immagine è stata deformata, i singoli ammassi stellari sono ancora chiaramente visibili, così come le strutture gassose.

I dati Webb utilizzati in questa immagine sono stati raccolti nell’ambito della survey Slice (Strong lensing and cluster Evolution, programma 5594), guidata da Guillaume Mahler dell’Università di Liegi, in Belgio, formata da un team di astronomi internazionale. È una survey che si propone – analizzando 182 ammassi di galassie con lo strumento NirCam di Webb – di tracciare otto miliardi di anni di evoluzione degli ammassi di galassie. Per produrre l’immagine sono stati utilizzati anche i dati di due strumenti del telescopio spaziale Hubble, la Wide Field Camera 3 e la Advanced Camera for Surveys.

Fonte: comunicato stampa Esa

31.3.2025 16:43Spiraleggiando attorno a un anello di Einstein
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Buchi neri, architetti cosmici

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La galassia Circinus in un’immagine Rgb (o a falsi colori) in cui si evidenzia l’emissione di componenti diversi della galassia. In blu, il gas ionizzato che traccia i venti emessi dai buchi neri; in rosso, l’emissione da parte di stelle giovani e parzialmente anche i venti provenienti dai buchi neri; in verde, l’emissione diffusa delle stelle nella galassia. Crediti: Marconcini et al./Nature Astronomy/Vlt/Eso

Per la prima volta è stato riscontrato dalle osservazioni quello che le simulazioni avevano previsto da tempo: la velocità dei venti di materia provenienti dai buchi neri supermassivi al centro delle galassie non è costante ma accelera notevolmente a grandi distanze dal buco nero, generando effetti rilevanti nel processo di evoluzione delle galassie ospiti. La spiegazione di questo fenomeno fisico era stato predetto da alcuni modelli teorici ma mai direttamente osservato finora.
I risultati dello studio, guidato dall’Università di Firenze e dall’Istituto nazionale di astrofisica (Inaf), sono stati pubblicati oggi su Nature Astronomy. Il gruppo di ricerca ha dimostrato per la prima volta che i venti generati dai buchi neri subiscono un’improvvisa accelerazione quando si allontanano dal centro galattico, giocando un ruolo chiave nell’evoluzione delle galassie.

Ogni galassia ospita al centro un buco nero supermassiccio. Questi nuclei galattici attivi (Agn) mentre assorbono materia generano forti venti di gas che si diffondono nello spazio circostante. Il gruppo di ricerca ha però riscontrato un comportamento anomalo: nei primi tremila anni luce (mille parsec) dalla sorgente, i venti si muovono a velocità costante o addirittura rallentano un po’; in seguito, subiscono una drastica espansione, si riscaldano e accelerano, raggiungendo velocità tali da espellere dalla galassia tutto il gas che incontrano lungo la strada. A questo risultato i ricercatori sono arrivati analizzando i venti di dieci galassie osservate con il Very Large Telescope (Vlt) dell’Eso, in Cile, e con un nuovo strumento per la modellizzazione tridimensionale dei dati, chiamato Moka3d e sviluppato dallo stesso gruppo.


Mosaico di immagini Rgb delle galassie analizzate. Crediti: Marconcini et al./Nature Astronomy/Vlt/Eso

«Grazie a questa accelerazione abbiamo dimostrato che parte del materiale della galassia viene spazzato via e non sarà più disponibile per far crescere ulteriormente il buco nero centrale o formare nuove stelle, quindi influenzando drasticamente l’evoluzione della galassia», sottolinea Cosimo Marconcini, dottorando di ricerca all’Università di Firenze e primo autore dello studio.

«Abbiamo osservato dieci galassie relativamente vicine, “solo” alcune centinaia di milioni di anni luce, che quindi possono essere studiate in dettaglio con nostri i telescopi sulle Ande cilene. È sorprendente che tutte queste galassie mostrino lo stesso comportamento, significa che stiamo assistendo agli effetti di un meccanismo fisico fondamentale» aggiunge Filippo Mannucci dell’Inaf di Arcetri, coautore dello studio. «Questo risultato costituirà una solida base su cui tutti gli studi successivi si potranno appoggiare. Tipicamente le velocità dei venti passano da circa 500 km/sec a oltre 1000 km/sec, valori così elevati che permettono al gas coinvolto di lasciare la galassia. Questo gas è ricco degli elementi relativamente pesanti come carbonio, ferro e ossigeno creati dalle stelle, elementi che vengono così sottratti allle galassie e dispersi nello spazio esterno».

«Questo risultato è importante perché per la prima volta siamo riusciti a confermare le previsione teoriche del modello più accreditato riguardo la propagazione di venti da Agn, proposto ormai ventidue anni fa ma che fino a ora non era mai stato confermato dalle osservazioni» conclude Marconcini. «Verosimilmente questo risultato cambierà la nostra comprensione di come il buco nero al centro della galassia e la galassia stessa si parlano».

Per saperne di più:

31.3.2025 09:53Buchi neri, architetti cosmici
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Proxima Centauri, la nostra scatenata dirimpettaia

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Se domattina il Sole decidesse di rispondere per le rime alla sua vicina Proxima Centauri, che si esibisce in spettacolari ed energetici brillamenti, certo sulla Terra la cosa non passerebbe inosservata e avremmo di che preoccuparci. La radiazione emessa dalla stella, che dal Sole dista appena poco più di quattro anni luce, investe infatti anche la sua zona abitabile. Già nota per la sua attività alle lunghezze d’onda del visibile, infatti, pare che Proxima Centauri dia il meglio di sé a lunghezze d’onda radio e millimetriche: un nuovo studio che utilizza le osservazioni dell’Atacama Large Millimeter/submillimeter Array (Alma) ha osservato alcuni brillamenti ancora più estremi, avanzando ipotesi poco ottimiste sui potenziali impatti che avrebbero sulla vivibilità dei pianeti che si trovano nella zona abitabile. Possiamo stare tranquilli, comunque: qui da noi non succederà, e fra poco vedremo perché.


Illustrazione artistica di un brillamento solare che si staglia dalla superficie di Proxima Centauri. Crediti: Nsf/Aui/Nsf Nrao/S. Dagnello

Piccola e cattiva, la nostra vicina si distingue dal Sole non solo per le apparenze – mentre il Sole è una stella nana gialla di tipo G, Proxima Centauri è una nana rossa di tipo M, ben più fredda alla superficie – ma anche e soprattutto per quello che c’è dentro: le piccole dimensioni e il forte campo magnetico indicano infatti che la sua struttura interna è interamente convettiva, a differenza del Sole, che ha strati convettivi e non convettivi. Di conseguenza, la stella è molto più attiva. I suoi campi magnetici si contorcono, sviluppano tensioni e alla fine si spezzano, rilasciando flussi di energia e particelle verso l’esterno in quelli che gli astronomi osservano come brillamenti.

Come il Sole, però, anche Proxima Centauri sembrerebbe ospitare un pianeta potenzialmente abitabile, che dai suoi brillamenti – almeno quelli osservati da Alma – potrebbero essere stati investiti. Quando vengono prodotti, questi brillamenti rilasciano energia luminosa in tutto lo spettro elettromagnetico, nonché esplosioni di particelle tipiche delle stelle attive chiamate particelle energetiche stellari. A seconda dell’energia e della frequenza di queste emissioni, i pianeti all’interno della zona abitabile potrebbero essere resi inabitabili dato che l’interazione con la loro atmosfera potrebbe privarli di ingredienti necessari alla vita, come l’ozono e l’acqua.

«L’attività del nostro Sole non elimina l’atmosfera terrestre e provoca invece splendide aurore, perché abbiamo un’atmosfera spessa e un forte campo magnetico che protegge il nostro pianeta», dice Meredith MacGregor della Johns Hopkins University, coautrice dell’articolo pubblicato su The Astrophysical Journal. «Ma i brillamenti di Proxima Centauri sono molto più potenti e sappiamo che ha pianeti rocciosi nella zona abitabile. Cosa stanno facendo questi brillamenti alle loro atmosfere? C’è forse un flusso così grande di radiazioni e particelle che l’atmosfera viene modificata chimicamente, o completamente erosa?».

Si tratta, ad oggi, del primo studio che utilizza osservazioni millimetriche per indagare nuovi aspetti della fisica dei brillamenti. Combinando 50 ore di osservazioni Alma con quelle dell’Atacama Compact Array, sono stati rilevati in totale 463 brillamenti con energie comprese tra 1024 e 1027 erg, e una durata da 3 a 16 secondi.

«Quando vediamo i brillamenti con Alma, stiamo sempre osservando radiazione elettromagnetica, ovvero la luce in varie lunghezze d’onda. Ma a uno sguardo più approfondito, questo brillamento a lunghezza d’onda radio ci dà anche la possibilità di tracciare le proprietà di queste particelle e di capire cosa viene rilasciato dalla stella», continua MacGregor.

Per fare ciò, occorre costruire la cosiddetta distribuzione di frequenza dei brillamenti, che traccia il numero di brillamenti in funzione della loro energia. In genere, questa distribuzione mostra che i brillamenti più piccoli (meno energetici) si verificano più frequentemente, mentre quelli più grandi e più energetici si verificano meno frequentemente. Su Proxima Centauri si verificano così tanti brillamenti che gli autori ne hanno rilevati molti in ogni intervallo di energia. Non solo: per i brillamenti più energetici, sono anche riusciti a disegnarne la forma, rilevando un profilo asimmetrico. La fase di decadimento sarebbe infatti molto più lunga della fase iniziale esplosiva.

A lunghezze d’onda millimetriche, in sostanza, l’attività di Proxima Centauri sembrerebbe molto più frequente rispetto a quanto si riesce a rilevare con i telescopi ottici, con i quali le informazioni ottenute sarebbero parziali e incomplete. Alma, finora, è l’unico interferometro millimetrico abbastanza sensibile per queste misure. E se vi state ancora chiedendo che fine hanno fatto quei poveri pianeti, mi spiace deludervi, ma una risposta ancora non c’è. Il vantaggio che questa stella ci sia così vicina, però, non esclude che nuovi studi potranno soddisfare questa curiosità, soprattutto ora che non può più nascondersi dietro i filtri dei telescopi ottici.

Per saperne di più:

28.3.2025 17:40Proxima Centauri, la nostra scatenata dirimpettaia
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Reti neurali per “catturare” oggetti interstellari

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Se c’è una classe di corpi celesti di cui si sa ancora poco, si tratta degli oggetti interstellari (Iso, dall’inglese interstellar object), ovvero corpi che non appartengono stabilmente al Sistema solare e che provengono dallo spazio tra le stelle. Oggetti come 1I/’Oumuamua, per intenderci, o 2I/Borisov. L’ideale sarebbe riuscire a intercettarne uno per studiarlo da vicino. Se mai l’impresa verrà tentata, potrà tornare utile Neural-Rendezvous, un sistema di guida e controllo basato sul deep learning ideato proprio con l’obiettivo di avvicinarsi in modo autonomo questi velocissimi viandanti dello spazio interstellare. È stato sviluppato da un team di ricercatori capitanato da Hiroyasu Tsukamoto, membro del dipartimento di ingegneria aerospaziale della University of Illinois Urbana-Champaign (Usa), e lo studio che lo descrive è stato pubblicato nel 2024 sul Journal of Guidance, Control, and Dynamics.

Il sistema è in grado di apprendere le informazioni necessarie per individuare un oggetto interstellare e valutare autonomamente le manovre da intraprendere per avvicinarlo. Partendo dai dati raccolti ed entro un certo limite probabilistico, il programma di deep learning può prevedere quale sia la miglior azione possibile di una navicella spaziale al fine di imbattersi in un Iso. «Un cervello umano ha molte capacità, come parlare e scrivere. Il deep learning», spiega Tsukamoto, «crea un cervello specializzato per una delle abilità con una conoscenza specifica del dominio. In questo caso, Neural-Rendezvous apprende tutte le informazioni di cui ha bisogno per incontrare un Iso, tenendo anche conto delle criticità intrinseche nell’esplorazione spaziale per quanto riguarda la sicurezza e i costi».


Alcune traiettorie elaborate da Neural-Rendezvous per l’esplorazione degli Iso: le curve gialle mostrano le traiettorie relative all’Iso e quelle blu mostrano le rotte del veicolo spazialo. Crediti: Nasa Jpl e University of Illinois Urbana-Champaign

Nato da una collaborazione con il Jet Propulsion Laboratory della Nasa, il progetto punta a superare le principali difficoltà che si riscontrano quando si parla di oggetti interstellari. Tali corpi sono estremamente sfuggenti, dato che attraversano il Sistema solare un’unica volta nel corso della loro esistenza e con velocità elevate, pari a decine di chilometri al secondo. Neural-Rendezvous, spiega Tsukamoto, affronta appunto queste due sfide poste dagli oggetti interstellari: l’essere bersagli ad alta energia e alta velocità e il seguire una traiettoria poco vincolata – tanto che non è possibile prevedere quando verranno a farci “visita”.

L’incertezza degli incontri con gli oggetti interstellari è anche la ragione per cui un veicolo spaziale dovrebbe essere capace di pensare autonomamente. «A differenza degli approcci tradizionali, in cui si progetta quasi tutto prima di lanciare un mezzo spaziale, per incontrare un Iso è necessario utilizzare qualcosa di simile a un cervello umano, progettato in maniera specifica per questo tipo di missioni e per rispondere ai dati in tempo reale, usando solo risorse a bordo del veicolo stesso», dice Tsukamoto.

Per verificare l’efficienza del sistema, i ricercatori non si sono limitati al software ma hanno fatto ricorso anche a particolari simulatori di veicoli spaziali, gli M-Star, nonché a piccoli droni programmabili, i Crazyflies. Ed è anche sfruttando i dati prodotti “sul campo” con queste simulazioni che è stato possibile compiere un ulteriore passo avanti: affiancato da Arna Bhardwaj e Shishir Bhatta, studenti di ingegneria aerospaziale della University of Illinois, Tsukamoto ha studiato come impiegare al meglio un intero sciame di sonde spaziali per raccogliere il maggior numero possibile d’informazioni durante l’incontro con l’oggetto interstellare.

«Ciò aggiunge un ulteriore livello di processo decisionale durante l’incontro con gli Iso», dice Tsukamoto. «Come posizionare in modo ottimale i veicoli spaziali per massimizzare le informazioni ricavabili? La soluzione di Bhardwaj e Bhatta è stata, appunto, quella di distribuire il veicolo spaziale, così da coprire visivamente la regione più probabile della posizione dell’oggetto interstellare». In tal modo, ciascuna navicella può selezionare in modo ottimale la propria destinazione e determinare il numero ideale di points of interest da indagare, migliorando potenzialmente la capacità di studiare i rari e fugaci visitatori interstellari, concludono i ricercatori, e riducendo al minimo l’utilizzo delle risorse.

Per saperne di più:

Guarda il video sul canale YouTube dell’Acxis Lab at Uiuc:

youtube.com/embed/AhDPE-R5GZ4?…

28.3.2025 12:58Reti neurali per “catturare” oggetti interstellari
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L’Inaf con Lapin al Festival delle scienze di Roma

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Questo è un invito a lasciarsi affascinare dai misteri dell’universo ed è rivolto a chi desidera scoprire come la scienza possa raccontare storie straordinarie, capaci di emozionare e coinvolgere. L’appuntamento è a Roma per la ventesima edizione del Festival delle scienze, dedicata al tema ‘Corpi’. L’Istituto nazionale di astrofisica (Inaf), insieme all’Istituto nazionale di fisica nucleare (Infn), è il principale sostenitore della kermesse di quest’anno, che prevede un ricco programma di appuntamenti pensati per coinvolgere e incuriosire il pubblico con le molteplici declinazioni del concetto di corpi: da quelli celesti a quelli umani, dagli organismi viventi alle intelligenze artificiali, alle forme di materia o di energia.


La locandina della 20esima edizione del Festival delle scienze di Roma, quest’anno dedicato al tema ‘Corpi’. Crediti: Festival delle Scienze Roma

Tra mostre, conferenze e spettacoli, l’Auditorium Parco della Musica ospiterà, da martedì 8 a domenica 13 aprile, scienziati di fama internazionale, giornalisti e intellettuali, che incontreranno il pubblico con l’approccio multidisciplinare e trasversale tipico del Festival, percorrendo cinque aree tematiche: Corpi complessi, Corpi originali, Corpi responsabili, Corpi plastici e Corpi inquieti.

All’interno del fitto calendario di eventi, l’Inaf proporrà molte occasioni per esplorare il legame tra ricerca e narrazione, tra curiosità e scoperte scientifiche, con un particolare focus sull’astronomia e le scoperte nell’universo. Una delle proposte più suggestive è la mostra “Dove la ricerca prende corpo”, visitabile per tutta la durata del Festival: un allestimento che racconta l’identità dell’Inaf attraverso una selezione di tavole illustrate tratte dall’albo Sketchtour: atlante illustrato dell’Istituto nazionale di astrofisica. Disegnate dall’artista francese Lapin, le illustrazioni, con stile poetico e narrativo, conducono il pubblico in un viaggio che intreccia luoghi e telescopi, laboratori e persone, mostrando come ogni sede dell’Istituto contribuisca a formare un organismo complesso e coeso, mosso dalla passione per la ricerca. Le tavole di Lapin restituiscono il valore collettivo del lavoro scientifico, rendendo tangibile l’idea che la conoscenza si costruisce come un corpo fatto di connessioni e relazioni.


Le persone e gli strumenti dell’Inaf nelle illustrazioni dell’artista francese Lapin.
Crediti: Inaf e www.lesillustrationsdelapin.com

Tra gli eventi più coinvolgenti figura la conferenza spettacolo “La voce nascosta dell’universo“, in programma mercoledì 9 aprile alle 21:00 nella Sala Petrassi. Un viaggio attraverso la scoperta delle onde gravitazionali, tra racconti scientifici, musica e prospettive future, a cura di Infn, in collaborazione con Inaf, Ego e Einstein Telescope Italy. Tra i protagonisti, Federica Govoni (Inaf), Antonio Zoccoli (presidente Infn) e Alessandro Cardini (Infn), pronti a raccontare come l’Einstein Telescope ci guiderà verso nuove straordinarie scoperte.

Il programma prosegue con la conferenza-spettacolo “Dare corpo a una storia“, in scena giovedì 10 aprile alle ore 19:700 presso il Teatro Studio Gianni Borgna. Pablo Trincia, giornalista e noto podcaster, dialogherà con Valentina Guglielmo (Inaf), ideatrice del podcast Houston: cosa potrebbe andare storto?, per raccontare come nasce e si sviluppa una storia scientifica in formato audio. Moderati da Davide Coero Borga (Inaf, Rai Cultura), i due relatori condurranno il pubblico attraverso le fasi creative che trasformano un’idea in un racconto capace di affascinare e informare.

Sabato 12 aprile sarà una giornata intensa di appuntamenti. Alle 12:00, l’incontro “Il mare che ascolta e racconta” condurrà il pubblico nelle profondità oceaniche per scoprire come gli osservatori marini, progettati per monitorare il clima e la biodiversità, siano in grado di captare anche segnali provenienti dallo spazio. A parlare del nuovo progetto scientifico K3mNeT e del suo “super neutrino” si alterneranno sul palco Luigi Antonio Fusco (Infn), Giuditta Marinaro (Ingv), Paolo Bolletta (Garr) e Fabrizio Bocchino (Inaf), guidati dalla giornalista scientifica Giorgia Burzachechi.

Al pomeriggio, nel corso di “Esplorare la mappa del cielo“, Roberto Ragazzoni (presidente Inaf) e l’astrofisica Sandra Savaglio (UniCal) parleranno di come gli umani guardino il cielo, spinti dal desiderio ancestrale di svelarne i segreti, e di come siano stati in grado di costruire potenti strumenti per osservare, misurare e analizzare diversi tipi di segnali provenienti dai corpi celesti.


Il presidente Inaf Roberto Ragazzoni (secondo da sinistra) alla conferenza stampa di lancio della nuova edizione 2025 del Festival. Crediti: Festival delle scienze 2025

Sempre il 12 aprile, alle 19:30, nella Sala Ospiti, la conferenza “Ascoltando la danza dei corpi celesti” celebrerà i dieci anni dalla prima rilevazione delle onde gravitazionali. Fulvio Ricci (Infn), Silvia Piranomonte (Inaf Oar) ed Eugenio Coccia (Gssi) racconteranno la straordinaria avventura scientifica che ha permesso di ascoltare l’eco della fusione di buchi neri e stelle di neutroni, segnando una nuova era nell’osservazione dell’universo.

La domenica è giorno di relax e l’Inaf vi suggerisce di partecipare a “L’universo è dentro di noi: astronomia e mindfulness” un incontro con Davide Perna (Inaf) su come l’astronomia offra una prospettiva più ampia sulla nostra esistenza e sul nostro ruolo nel cosmo. A seguire una pratica di mindfulness per tutti i partecipanti durante la quale il respiro e il corpo diverranno strumenti per esplorare il legame con l’universo.


Al Festival, l’inaf propone ogni anno giochi, laboratori per le scuole, giovani e famiglie. Crediti: Festival delle Scienze Roma

Di microorganismi, biodiversità terrestre ed ecologia spaziale si parlerà domenica 13 aprile, alle 15:30, presso la Sala Ospiti, dove si terrà il panel “Fra Terra e Spazio: One Health“, realizzato in collaborazione con Enea e Cnr. La conversazione, che vedrà interventi di esperti come Stefano Amalfitano (Cnr), Annamaria Bevivino (Enea) e Patrizia Caraveo (Inaf), esplorerà il concetto di salute globale come connessione tra esseri umani, animali e ambiente e offrirà una riflessione su come i microorganismi influenzino la vita sulla Terra e su come le scoperte spaziali possano ampliare la nostra comprensione della salute del pianeta. La moderazione sarà affidata all’astrofisico e divulgatore scientifico Luca Nardi, mentre le letture di Carla Costigliola (Enea) arricchiranno l’evento con suggestioni letterarie ispirate dal film “La guerra dei mondi”.

Dulcis in fundo, per chi desidera mettersi alla prova con esperienze pratiche, l’Inaf allestirà uno spazio dedicato ai laboratori e offrirà due attività pensate per stimolare la curiosità e la creatività. Le attività “La scatola delle fasi lunari” e “Stelle in prospettiva” proporranno la realizzazione di modelli di Luna o costellazioni, saranno rivolte principalmente alle scuole e guideranno bambini e ragazzi nella scoperta dei fenomeni astronomici attraverso esperimenti e giochi didattici.

Per saperne di più:

Appuntamenti Inaf al Festival delle scienze di Roma 2025:

Lapin – SketchTour: Dove la ricerca prende corpo
Dall’8 al 13 aprile 2025
Foyer Sinopoli – Auditorium Parco della Musica Ennio Morricone (Roma) (ingresso libero)

La voce nascosta dell’Universo
Mercoledì 9 aprile 2025, ore 21:00
Sala Petrassi – Auditorium Parco della Musica Ennio Morricone (Roma)

Dare corpo a una storia
Giovedì 10 aprile 2025, ore 19:00
Teatro Studio Gianni Borgna – Auditorium Parco della Musica Ennio Morricone (Roma)

Il mare che ascolta e racconta
Sabato 12 aprile 2025, ore 12:00
AuditoriumArte – Auditorium Parco della Musica Ennio Morricone (Roma)

Esplorare la mappa del cielo
Sabato 12 aprile 2025, ore 17:30
Teatro Studio Borgna – Auditorium Parco della Musica Ennio Morricone (Roma)

Ascoltando la danza dei corpi celesti
Sabato 12 aprile 2025, ore 19:30
Sala Ospiti – Auditorium Parco della Musica Ennio Morricone (Roma)

L’universo è dentro di noi: astronomia e mindfulness
Domenica 13 aprile 2025, ore 10:00
Studio 2 – Auditorium Parco della Musica Ennio Morricone (Roma)

Fra terra e spazio: One Health
Domenica 13 aprile 2025, ore 15:30
Sala Ospiti – Auditorium Parco della Musica Ennio Morricone (Roma)

Laboratori INAF per bambini e ragazzi
La scatola delle fasi lunari
Stelle in prospettiva

27.3.2025 18:06L’Inaf con Lapin al Festival delle scienze di Roma
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Getti dai buchi neri visti con Eht

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Rappresentazione artistica di un nucleo galattico attivo. Crediti: Juan Carlos Algaba

Un team internazionale di ricercatori ha sfruttato osservazioni a diverse lunghezze d’onda di nuclei galattici attivi per indagare i meccanismi attraverso cui i buchi neri supermassicci generano e alimentano getti relativistici. Le sedici sorgenti analizzate dal team sono state osservate con il telescopio Event Horizon (Eht) durante la sua prima campagna del 2017. Grazie all’eccezionale risoluzione caratteristica di Eht, gli scienziati sono riusciti a studiare i getti con un livello di dettaglio senza precedenti, spingendosi più vicino che mai ai buchi neri supermassicci al centro di queste galassie.

I ricercatori hanno confrontato le osservazioni effettuate da Eht con studi precedenti condotti con il Very Long Baseline Array e il Global Millimeter Vlbi Array, che sondano scale spaziali più ampie. Da questo confronto è stato possibile dedurre come i getti si evolvono, dal luogo di origine in prossimità del buco nero fino a molti anni luce di distanza, nello spazio interstellare. Questo lavoro rappresenta un passo fondamentale per comprendere la fisica estrema che governa l’emissione dei getti e il ruolo dei campi magnetici nella loro formazione ed evoluzione.

Il lavoro è stato condotto da scienziati del Max Planck Institute for Radio Astronomy (Mpifr) di Bonn, in Germania, e dell’Instituto de Astrofisica de Andalucia (Iaa-Csic) di Granada, in Spagna. I risultati sono pubblicati sulla rivista Astronomy & Astrophysics.

Il modello più comune che descrive il fenomeno dei getti ipotizza strutture coniche in cui il plasma si muove a velocità costante, mentre l’intensità del campo magnetico e la densità del plasma del getto decadono con l’aumentare della distanza dal motore centrale. Sulla base di queste ipotesi, è possibile fare previsioni sulle proprietà osservabili dei getti. «Questo modello di base non può essere una descrizione perfetta per tutti i getti; molto probabilmente lo è solo per una piccola parte. La dinamica e la sottostruttura dei getti sono intricate e i risultati delle osservazioni possono risentire molto delle degenerazioni astrofisiche», spiega il primo autore dello studio Jan Röder. «Ad esempio, sappiamo che molti getti sembrano accelerare. O è il plasma stesso ad accelerare, oppure potrebbe essere un effetto della geometria: se il getto si piega, può puntare verso di noi più direttamente, dando l’impressione di un movimento più veloce».


Rappresentazione schematica di un nucleo galattico attivo. Dal buco nero e dal suo disco di accrescimento, il getto relativistico viene lanciato in una geometria parabolica, per poi passare a un aspetto conico. Crediti: Jan Röder/Maciek Wielgus

«Utilizzando il campione di sedici nuclei galattici attivi, siamo stati in grado di ottenere un quadro più ampio del comportamento dei getti, rispetto all’osservazione delle singole sorgenti. In questo modo, i risultati sono meno soggetti all’influenza delle rispettive unicità», afferma il co-leader del progetto Maciek Wielgus. «Abbiamo notato che la luminosità dei getti aumenta tipicamente con l’aumentare della distanza dal buco nero, indicando chiaramente un’accelerazione».

I risultati ottenuti mettono in discussione le ipotesi di lunga data sul comportamento dei getti. Sebbene esistano spiegazioni alternative a queste nuove osservazioni, come una deviazione dalla geometria conica, è chiaro che il modello teorico di base non è in grado di riprodurre completamente le proprietà dei getti vicino alla loro origine. «Sono necessari ulteriori studi per comprendere appieno il meccanismo di accelerazione, il flusso di energia, il ruolo dei campi magnetici nei getti dei nuclei galattici attivi e le loro geometrie. La rete in espansione di Eht avrà un ruolo fondamentale nelle future scoperte su questi affascinanti oggetti», conclude Röder.

Per saperne di più:

27.3.2025 16:11Getti dai buchi neri visti con Eht
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Molecole organiche su Marte. È grasso che cola

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Dal suo atterraggio su Marte nel 2012, il rover della Nasa Curiosity ha individuato tracce di diverse molecole organiche. Si tratta di molecole piccole, contenenti cloro e zolfo, costituite da non più di sei atomi di carbonio. È notizia di pochi giorni fa che il rover ha ora rilevato i più grandi composti organici mai osservati sul pianeta. La scoperta, pubblicata questa settimana sui Proceedings of the National Academy of Sciences, suggerisce che la chimica prebiotica di Marte potrebbe essere stata più complessa di quanto si pensasse in precedenza, sollevando affascinanti interrogativi sulla possibile origine della vita sul pianeta.


In primo piano, a sinistra, una grafica che mostra le molecole organiche a catena lunga individuate dal rover Curiosity. Si tratta delle molecole più grandi scoperte su Marte fino ad oggi. Sono state rilevate in un campione di roccia chiamato “Cumberland” e analizzate dal laboratorio miniaturizzato Sample Analysis at Mars (Sam) a bordo del rover. Curiosity, il cui selfie è visibile sul lato destro dell’immagine, esplora il cratere Gale dal 2012. Sullo sfondo, appena visibile, c’è il foro da dove è stato prelevato il campione Cumberland. Crediti: Nasa/Dan Gallagher

Le molecole in questione sono il decano, l’undecano e il dodecano. Come suggerisce la radice del nome, si tratta di composti con dieci, undici e dodici atomi di carbonio rispettivamente. Lo strumento Sam (Sample Analysis at Mars), il più grande a bordo del rover, le ha individuate in un campione di roccia, soprannominato ‘Cumberland’, risalente a 3.7 miliardi di anni fa e prelevato in un’area del cratere Gale chiamata Yellowknife Bay, il sito di un antico lago marziano.

Come spesso accade nella ricerca scientifica, la scoperta delle molecole è stata casuale. Anzi, doppiamente casuale, per essere precisi. La prima casualità riguarda l’area in cui le molecole sono state rilevate: gli scienziati hanno deciso di setacciare la formazione di Yellowknife Bay in quanto mostrava caratteristiche morfologiche create dalla presenza di acqua liquida, suggerendo la presenza di un antico lago che avrebbe potuto sostenere la vita microbica. Per questo motivo, durante la sua missione, Curiosity ha cambiato il piano di viaggio, dirigendosi verso questa struttura geologica prima di avviarsi verso la sua destinazione principale al centro del cratere Gale: il Monte Sharp. Il cambio di rotta si è rilevato fortunato: il campione Cumberland, prelevato all’interno dell’area il 279esimo giorno marziano, o sol, della missione, è risultato essere ricco di indizi chimici sul passato di Marte.

La seconda casualità riguarda le molecole oggetto della scoperta. Il team di scienziati guidati da Caroline Freissinet, ricercatrice al Cnrs, in Francia, e prima firmataria dello studio che riporta i risultati della ricerca, stava infatti usando il mini laboratorio di chimica integrato in Sam per analizzare il campione alla ricerca di firme di amminoacidi, i mattoni fondamentali per la costruzione delle proteine. Dopo che lo strumento ha riscaldato per due volte la roccia all’interno del suo forno e analizzato la massa delle molecole rilasciate, i ricercatori, tuttavia, non hanno trovato alcuna traccia di amminoacidi, ma hanno individuato decine di picomoli di idrocarburi: decano, undecano e dodecano, appunto.

L’ipotesi dei ricercatori è che questi composti possano essere il prodotto della degradazione di molecole molto più grandi, mediata dal riscaldamento all’interno dello strumento Sam. Frammenti di acidi grassi, ad esempio: macromolecole biologiche fondamentali per la vita. Per verificare questa possibilità, il team ha condotto esperimenti in laboratorio, mescolando acido undecanoico, un acido grasso, con un’argilla simile a quella presente su Marte. Le analisi, eseguite in maniera simile a quelle condotte dallo strumento Sam, hanno confermato la tesi: dopo aver riscaldato l’argilla, l’acido undecanoico ha rilasciato decano. I ricercatori hanno quindi fatto riferimento a studi già pubblicati per dimostrare che, in maniera del tutto simile, l’acido dodecanoico avrebbe potuto rilasciare l’undecano e l’acido tridecanoico il dodecano.


Immagine che mostra il foro di raccolta del campione ‘Cumberland’ (cliccare pe ringarndire). Crediti: Nasa/Jpl-Caltech/Msss

Tutto questo significa che abbiamo trovato una biofirma, ovvero la prova definitiva che sul pianeta esista o sia esistita la vita? La risposta è negativa. La rilevazione di decano, undecano e dodecano e il fatto che queste molecole siano probabilmente presenti su Marte come acidi grassi a catena lunga non significa aver trovato la firma di attività biologica. Gli esseri viventi producono acidi grassi per formare membrane cellulari e svolgere funzioni biologiche essenziali. Tuttavia, processi non biologici, come l’interazione tra l’acqua e i minerali nelle sorgenti idrotermali, possono generare strutture simili. Sebbene al momento non sia possibile determinare con certezza l’origine di queste molecole, gli scienziati sottolineano che la loro scoperta è la prima prova che la chimica organica su Marte ha raggiunto il livello di complessità necessario per supportare la vita.

Il campione Cumberland, concludono i ricercatori, contiene minerali argillosi, la cui formazione è strettamente legata alla presenza di acqua. È ricco di zolfo, elemento che può contribuire alla conservazione delle molecole organiche, e di nitrati, composti essenziali sulla Terra per la vita di piante e animali. Inoltre, contiene tracce di metano. Ma soprattutto, contiene molecole di idrocarburi a catena lunga, probabilmente presenti sul pianeta come acidi grassi. Questo, aggiungono, suggerisce che le molecole organiche di grandi dimensioni possano essere conservate su Marte, riducendo le preoccupazioni legate alla loro distruzione nel tempo a causa dell’esposizione alle radiazioni e ai processi di ossidazione. Gli scienziati ora sono pronti a fare il prossimo grande passo: portare i campioni di Marte che sta raccogliendo Perseverance nei propri laboratori, per risolvere il dibattito sull’esistenza presente o passata della vita sul pianeta.

Per saperne di più:


Guarda il video (in inglese) sul canale YouTube della Nasa:

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27.3.2025 06:55Molecole organiche su Marte. È grasso che cola
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Equilibrio di stranezze in una rara galassia a spirale

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Un team internazionale di astronomi, guidato dalla Christ University di Bangalore, in India, ha scoperto una galassia a spirale, distante quasi un miliardo di anni luce dalla Terra, che ospita un buco nero supermassiccio con una massa di miliardi di volte quella del Sole. Questo buco nero alimenta colossali getti radio che si estendono per sei milioni di anni luce. Si tratta di uno dei più grandi buchi neri mai osservati in una galassia a spirale e mette in discussione le attuali teorie sull’evoluzione galattica, poiché getti così potenti si trovano quasi esclusivamente nelle galassie ellittiche, non nelle spirali.


I giganteschi getti radio che si estendono per sei milioni di anni luce e un enorme buco nero supermassiccio nel cuore della galassia a spirale J23453268-0449256, ripresi dal Giant Metrewave Radio Telescope. Crediti: Bagchi e Ray et al/Giant Metrewave Radio Telescope

La scoperta lascia presagire che anche la nostra apparentemente tranquilla Via Lattea potrebbe, in futuro, generare getti simili. Un evento del genere avrebbe conseguenze significative, causando un aumento delle radiazioni e creando un potenziale scompiglio all’interno del Sistema solare. «Questa scoperta è più di una semplice stranezza: ci costringe a ripensare a come si evolvono le galassie e a come i buchi neri supermassicci crescono al loro interno e plasmano il loro ambiente», dichiara Joydeep Bagchi, primo autore dello studio. «Se una galassia a spirale può non solo sopravvivere, ma anche prosperare in condizioni così estreme, cosa significa questo per il futuro di galassie come la Via Lattea? La nostra galassia potrebbe un giorno sperimentare fenomeni simili ad alta energia, con gravi conseguenze per la sopravvivenza della preziosa vita al suo interno?».

Nel nuovo studio, pubblicato su Monthly Notices of the Royal Astronomical Society, i ricercatori hanno svelato la struttura e l’evoluzione di questa strana galassia a spirale, chiamata 2Masx J23453268-0449256, tre volte più grande della Via Lattea.

Utilizzando le osservazioni del telescopio spaziale Hubble, del Giant Metrewave Radio Telescope, dell’Atacama Large Millimeter Wave Array e le analisi a più lunghezze d’onda, hanno individuato l’enorme buco nero supermassiccio nel suo cuore e getti radio che sono tra i più grandi conosciuti per qualsiasi galassia a spirale, rendendola una galassia alquanto rara.

In teoria, l’intensa attività di questi colossali getti, alimentati da buchi neri supermassicci, dovrebbe distruggere la delicata struttura di una galassia a spirale. Eppure, contro ogni previsione, 2Masx J23453268-0449256 ha mantenuto la sua natura ordinata, con bracci a spirale ben definiti, una luminosa barra centrale e un anello stellare apparentemente indisturbato, pur ospitando uno dei buchi neri più estremi mai osservati in un ambiente simile.

A rendere il quadro ancora più enigmatico, la galassia è avvolta da un vasto alone di gas caldo che emette raggi X, rivelando indizi cruciali sulla sua storia. Mentre questo alone si raffredda lentamente nel tempo, i getti del buco nero agiscono come una fornace cosmica, impedendo la formazione di nuove stelle nonostante l’abbondanza di materiale stellare disponibile.

La Via Lattea ha nel suo centro un buco nero di quattro milioni di masse solari – Sagittarius A (Sgr A*) – che attualmente è in uno stato estremamente tranquillo, dormiente. Secondo i ricercatori, la situazione potrebbe cambiare se una nube di gas, una stella o persino una piccola galassia nana venissero “mangiati” da Sgr A*, innescando potenzialmente una significativa attività sotto forma di getti. Tali eventi sono noti come eventi di distruzione mareale (Tde, acronimo di tidal disruption events) e ne sono stati osservati diversi in altre galassie, ma non nella Via Lattea.

Se grandi getti come questi dovessero emergere da Sgr A*, il loro impatto dipenderebbe dalla loro forza, dalla direzione e dall’energia prodotta. Un getto puntato in prossimità del Sistema solare potrebbe eliminare le atmosfere planetarie, danneggiare il Dna e aumentare i tassi di mutazione a causa dell’esposizione alle radiazioni, mentre se la Terra fosse esposta a un getto diretto o vicino, potrebbe degradare il nostro strato di ozono e portare a un’estinzione di massa. Una terza possibilità è che un potente getto possa alterare il mezzo interstellare e influenzare la formazione stellare in alcune regioni, come è accaduto nella galassia oggetto del nuovo lavoro.


Immagine a colori di J23453268-0449256, che misura 300mila anni luce, catturata dal telescopio spaziale Hubble. È affiancata da una rappresentazione della Via Lattea, tre volte più piccola. Crediti: Bagchi e Ray et al/Telescopio spaziale Hubble

Gli astronomi ritengono che in passato la Via Lattea abbia probabilmente avuto getti radio su larga scala e che potenzialmente potrebbe generarli di nuovo in futuro, ma gli esperti non sono in grado di dire esattamente quando, perché dipende da molti fattori.

Come se non bastasse, il team di ricercatori ha anche scoperto che J23453268-0449256 contiene una quantità di materia oscura dieci volte superiore a quella della Via Lattea, fondamentale per la stabilità del suo disco in rapida rotazione. Rivelando un equilibrio senza precedenti tra materia oscura, attività dei buchi neri e struttura galattica, i ricercatori sostengono che il loro studio apre nuove frontiere nell’astrofisica e nella cosmologia.

«La comprensione di queste rare galassie potrebbe fornire indizi vitali sulle forze invisibili che governano l’universo, tra cui la natura della materia oscura, il destino a lungo termine delle galassie e l’origine della vita», conclude Shankar Ray, coautore della pubblicazione. «In definitiva, questo studio ci porta un passo più vicino a svelare i misteri del cosmo, ricordandoci che l’universo riserva ancora sorprese al di là della nostra immaginazione».

Per saperne di più:

26.3.2025 18:28Equilibrio di stranezze in una rara galassia a spirale
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